La lotta per la verità porta una giornalista d’assalto alla fine della carriera. Voleva sapere troppo su Bush
Un film destinato a vincere o comunque a far parlare di sé alla decima edizione della Festa del cinema di Roma. Stiamo parlando di “Truth”, per la regia di James Platten Vanderbilt. Con un cast d’eccezione composto da: Robert Redford, Cate Blanchett, Elisabeth Moss, Topher Grace e Dennis Quaid. La storia di una donna, Mary Mapes, coinvolta nel cosiddetto “scandalo CBS” per aver effettuato illazioni, supposizioni e dubitato della posizione del presidente degli Usa, George W. Bush, alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2004. La donna, interpretata da un’egregia Cate Blanchett, è affiancata nell’indagine, dal noto anchorman Dan Rather (Robert Redford). Crede di avere le prove che testimoniano che Bush si è sottratto dal suo dovere di soldato durante la guerra del Vietnam sfruttando conoscenze familiari e privilegi politici. Per il solo fatto di aver dubitato della posizione del presidente, inizia per lei un inferno di accuse, intimidazioni, e contro-indagini.
Un’inchiesta giornalistica che diventa un caso giudiziario. La ricerca della verità che insegna cosa significhi fare un vero reportage senza cadere nello scoop o nello scandalo sensazionalistico ad ogni costo. Verità pagata a caro prezzo dalla protagonista, con una lotta che conduce per difendere la sua tesi fino all’ultimo. Ed è così soprattutto per il fatto di essere ispirata a una storia vera, che si è voluta riprodurre il più fedelmente possibile. Dando preponderanza, con astuzia ed acume, all’aspetto umano ed emotivo della vicenda di una donna, la cui vita viene travolta e la carriera compromessa.
Ma la ricerca della verità non è comoda né, tantomeno, è suffragata dalla logica della giustizia. È infangata e politicizzata, quando la verità dovrebbe essere solamente libera. Ed invece un’inchiesta giornalistica diventa un giallo sempre più oscuro ed inquietante; le interviste si trasformano in interrogatori pesanti ed insistenti, con lo stesso interrogativo che viene posto, ovvero se a Bush fu permesso di non partire per il Vietnam. La posta in gioco si fa sempre più consistente e il rischio sempre più alto. Continui colpi di scena e svolte inaspettate fanno perdere ogni certezza. Si dubita di tutto e tutti. Ognuno è a rischio e si è tutti diffidenti perché non ci si può più fidare di nessuno. La domanda ossessiva, quasi ricorrente, che viene posta è: “ma tu mi credi?”. Un caso destinato a rimanere senza risposta, archiviato nel dimenticatoio della coscienza forse di chi sapeva e ha taciuto o di chi ha mentito per interesse personale. Una storia reale che ha fatto scuola nel giornalismo. Il sacrificio di una donna per la ricerca del vero, che ha stravolto ogni certezza, fino all’inevitabile atto finale: quell’errata corrige di stampo galileiano.
Se il Marco Aurelio d’oro non dovesse arrivare, scommettiamo in un riconoscimento quale migliore attrice protagonista per la Blanchett, capace di alternare momenti di forza, decisione, fermezza a fragilità emotive devastanti, donando al personaggio una tale ampiezza interpretativa che vale da sola il prezzo del biglietto.
In conferenza stampa è stato sottolineato come la potenza di una tematica del genere, a poco più di un anno dalle presidenziali, potesse avere un riscontro sull’opinione pubblica ed un messaggio tendenzialmente politico, ma la produzione e gli autori hanno evidenziato come in realtà l’intento fosse unicamente quello di raccontare niente altro che il punto di vista giornalistico della storia, mostrando principalmente il suo impatto emotivo: una lezione di giornalismo, oggi che di inchieste se ne fanno poche, per un’informazione libera e non controllata dal potere. Una storia che insegna il coraggio di difendere le proprie idee ad ogni costo e di lottare per esse nonostante in ballo ci possa essere la propria credibilità ed il rischio di pagare un prezzo sin troppo alto.
Il regista Vanderbilt ha affermato di essere sempre stato affascinato dalle “dinamiche interne alle redazioni giornalistiche” e da “come viene confezionato uno scoop poi reso pubblico”, ed infatti il film non prescinde dall’entrare nella realtà di una redazione, con le sue complesse relazioni e problematiche deontologiche. Il regista prosegue affermando che “Ci interessa il caso giornalistico e non quello politico. Non c’è stato né c’è, né ci sarà mai nessun caso Bush”… Più chiaro di così…
“Truth” è la storia della difesa ostinata delle proprie idee e dei propri principi e valori; la rincorsa a un’oggettività forse impossibile da raggiungere, ma comunque auspicabile.
di Barbara Conti