Dopo Albertazzi sul palco cosa resta?
Non racconterò Giorgio Albertazzi, chi fosse o quali siano stati i suoi tanti trofei artistici, i film, la fiction, il teatro e il cinema internazionale. A quello hanno già pensato le grandi testate con “coccodrilli” ampi, dettagliati, che tutti hanno già scritto e che tutti hanno già letto.
Mi permetto di raccontarvi il novantenne, immenso, immenso attore che, seduta tra le file del Teatro Ghione di Roma, ho potuto conoscere un po’ per fortuna un po’ per mestiere.
Dicono che un bravo giornalista debba distaccarsi dai propri scritti, farsi da parte e lasciare alla storia tutta la luce, ma in momento simile come posso fare?
Per raccontarvi qualcosa di Albertazzi non posso che condividere la mia esperienza diretta. La stretta di mano, le parole.
Il Maestro, come me lo presentarono dopo aver assistito ad una sublime rappresentazione del “Mercante di Venezia” di Shakespeare al Ghione, ovviamente lo conoscevo già per fama. Oltre quella, c’erano i film visti da bambina seduta di fianco ai nonni, grazie a loro così come ho amato Totò, avevo conosciuto Giorgio Albertazzi. In quel passaggio di testimone, di cultura e preferenze cinematografiche e televisive di una volta, che spesso avviene in famiglia.
Nel vederlo in scena avevo capito perché lo si elogiasse tanto. Era il carisma, la memoria intatta, la presenza sua e di chi lo aveva preceduto su quelle assi, che lo accompagnava come un’ombra. Portava con sé l’eleganza del classico e l’irruenza dei nuovi adattamenti, come un vestito su misura fatto proprio a pennello.
Nelle vesti del mercante di Venezia, lo adorai. Non sono qui a dirlo ora perché, si sa, dei morti si deve parlar bene. Mi aveva trascinato così a fondo nel dolore e nella malinconia alla base di quel personaggio, da togliermi il fiato. La scena che ricordo meglio è una commistione di classico e tristemente moderno, in uno dei monologhi di Shylock citava “Se questo è un uomo” di Primo Levi, e in quel momento così pieno di pathos, non era più solo il mercante, era la voce toccante di tutto ciò che è umano, una voce rauca e stanca non solo per scena.
Proprio in quell’occasione ebbi la fortuna di poterlo conoscere. Per quanto mi riguarda camminai verso il camerino in punta di piedi, quasi temessi quel gigante teatrale. Lui vedendoci, nonostante la stanchezza dello spettacolo appena finito, ci accolse con il sorriso, lieto soprattutto del fatto che tanti giovani ancora venissero a teatro a vedere Shakespeare. Non lui, fate bene attenzione, per se stesso aveva solo ironia. Un vecchio, diceva.
Oggi come un anno fa posso dire d’essere uscita da quel teatro con qualcosa in più. Un piccolo bagaglio. In fondo è questo il vero scopo dell’arte, lasciare a chi la incrocia un segno.
Giorgio Albertazzi, con me, c’era riuscito.
Di certo, era in parte merito del Mercante di Venezia. Amo Shakespeare e frequento il Globe Theater di Roma tutte le estati, ma era stato l’attore a rendermi così partecipe. Oggi, dai vari articoli sulla sua carriera scopro di essermi persa la sua interpretazione del mago Prospero in “La Tempesta“, proprio al Globe e mi lascia l’amaro in bocca, perché ho la certezza di aver perso qualcosa.
La tristezza è leggittima, però vado avanti perché di Albertazzi sulla scena ho ancora da dire.
Anche quest’anno ero tornata al Ghione, stavolta per vedere “Memorie di Adriano” e ovviamente per il Maestro.
Lo spettacolo, decantato dalla critica, aveva quasi superato le mille replice, era un ingranaggio ben oliato e si reggeva tutto sul suo lungo monologo. Intenso, sia da vedere che da ascoltare, ad un certo punto si poteva quasi percepire la sua fatica, l’intensa interpretazione che regalava ad un pubblico silenzioso e attento.
L’impressione era che il testo non appartenesse più alla talentuosa Marguerite Yourcenar, ma al Maestro.
La memoria non gli difettava di una parola, così avevo letto, prima di vederlo e così mi aveva stupito. Novantadue anni per un’ora e più di scena. Incredibile. Un pilastro, sul palco attraversato dagli altri attori, corpi reali per quelle memorie raccontate.
Allora, per una stupida influenza persi i tempi tecnici per rilasciare un’utile recensione dello spettacolo. Le repliche si conclusero poco dopo, qui devo ammettere che ve ne sto dando una versione dallo spirito mesto, non potevo conoscere il futuro e quel che è fatto è fatto.
Posso comunque raccontarvi quello che disse Giorgio Albertazzi alla fine, dopo i lunghissimi applausi, dopo i “Bravo” che scappavano da più bocche, perché l’applauso di fronte a tanto grande attore non poteva bastare. Gli appunti del mio taccuino sembrano ancora più importanti ora.
Sempre con ironia, sempre con verve, Albertazzi si scusò perché non sarebbe potuto rimanere a salutare e intrattenersi come suo solito. Spiegò l’importanza per lui dello spettacolo e del pubblico.
Entrambi lo facevano andare avanti, disse «Io vi vampirizzo, prendo energia, mi nutro di voi. Lavoro su un filo, ho uno staff medico che mi coltiva…» scherzando continuava «Per ora me la cavo, ma sappiate che se dovessi lasciarci la buccia, preferisco lasciarla sul teatro».
Con una risata, ma con più rispetto che beffa nella voce, alludeva alla triste realtà di oggi.
Un teatro senza di lui.
Se si può essere un attore umile ed immenso, d’altri tempi e dei nostri al contempo, un servitore dell’arte, questo è stato Giorgio Albertazzi.
Le Muse piangono un devoto, il sipario cala.
Resta la memoria, l’orma perenne nel cuore di chi ha potuto incrociare la sua strada.
Grazie Maestro