Il quarto album del trio newyorkese
Così ad impatto, il nome potrebbe non dirvi niente. Ma sono certa che facendo partire le prime note di Gold Lion, la mente correrebbe in fretta allo spot di un noto profumo francese che spopolava qualche anno fa (e ancora vendutissimo). È proprio a quel brano che gli americani Yeah Yeah Yeahs devono la loro fama europea, pur avendo una carriera decennale alle spalle e tre dischi all’attivo. Mosquito è il quarto, album all’insegna di un punk-pop “corrotto” già celato nella copertina, in cui un bambino-fantoccio si dispera per la puntura di un insetto.
Piange lacrime verde acido come acidi sono il resto dei colori dell’immagine, sintomi di uno stile che di commerciale conserva la patina ma preferisce scavare nel torbido. Testi minimal, spesso criptici, riferimenti musicali che rubano al rock e alla new wave, un album che è vintage quanto basta perché alle orecchie suona sempre nuovo. Mosquito è anti-melodico e allo stesso tempo cinematografico: singoli come Sacrilege (il cui cliccatissimo video vede la partecipazione dell’attrice/modella inglese Lily Cole) non creano dipendenza come le hit da classifica, ma come quei brani che si ascoltano in locali malfamati e negli strip-club delle piccole città della provincia americana, quelle in cui tutto sembra “filare liscio” alla luce del giorno ma in cui, di notte, la noia spinge le vite dei suoi abitanti alla deriva. L’album gioca sull’alternanza tra brani “gridati”, come la title-track Mosquito e Area 52, e lenti sensuali e perversi, come Slave e Under The Earth. Chiude Wedding Song, ballad che è un ritorno a una normalità, sempre e solo apparente. Difficile dire cos’è rimasto oggi di quel marasma di generi inclusi nella grande famiglia dell’alternative rock: i Muse si sono arrischiati nelle vie dell’electro pop commerciale, gli Strokes hanno preferito evolversi. Gli Yeah Yeah Yeahs, nonostante tutto, restano riconoscibili.
di Lucia Gerbino