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Robbie Williams si riprende la corona

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Robbie Williams si riprende la corona

Robbie Williams - Take The Crown Tour 2013 (San Siro) © Silvia Gerbino

Robbie Williams – Take The Crown Tour 2013 (San Siro) © Silvia Gerbino

60.000 “sudditi” a San Siro per l’ultimo Re del Pop

Difficile guadagnarsi la credibilità da parte della critica quando esordisci con un gruppo come i Take That: la sola associazione di un nome a quello di una boyband fa storcere il naso. Bisogna però avere, se non altro, l’onestà intellettuale di ricredersi quando i fenomeni pop superano la prova del tempo, perché è una rarità che capita a pochissimi. È successo ai Take That e soprattutto a Robbie Williams, tornato lo scorso 31 Luglio a Milano per riprendersi la corona reclamata nel suo ultimo album, per l’appunto Take The Crown.

Quello di Robbie è uno spettacolo consigliato agli scettici: spassoso, sorprendente, pirotecnico. Il tempo è passato, Robbie ha 39 anni e ha messo su la pancetta “da padre di famiglia” ma la faccia da schiaffi di vent’anni fa è rimasta la stessa. Si fa calare dall’alto sulle note di Hey Wow Yeah Yeah, per poi attaccare con Let Me Entertain You, forse il miglior cocktail energetico degli ultimi 20 anni. Dell’ultimo disco canta poco: Not Like The Others, Gospel, Be A Boy e la hit Candy. Il resto della scaletta è affidato ai suoi successi: ripropone Kids, portata al successo con Kylie Minogue, in duetto con Olly Murs (giovane star di X Factor UK, che si è visto piovere addosso la fortuna di aprire i concerti di Robbie), Sin Sin Sin e Come Undone in cui, come nel 2011 con i Take That, trova il tempo di cantare Take A Walk On The Wild Side di Lou Reed. E le cover non sono finite: tira fuori Minnie The Moocher di Cab Calloway, con il pubblico che gli fa eco nel ritornello (e accende speranze per un sequel del fortunato Swing When You’re Winning), improvvisa, a cappella, Baby One More Time di Britney Spears e Yesterday dei Beatles. Il palco è un trionfo dell’autocelebrazione: teste metalliche sparse ovunque che a turno liberano palloncini, fungono da vascelli, sputano acqua. Tuffo nel passato con Everything Changes dei Take That, che Robbie dedica a una fan incredula chiamata sul palco dalla prima fila, che poi invita a giocare con lui dentro un letto gigante sulle note di Strong. Sul palco si muove come un animale, agile nonostante la ciccia, divertente senza mai apparire ridicolo. Ammicca alle coriste, imita Beyoncé mostra i mille usi che si possono fare dell’asta di un microfono: mazza da golf, bastone della vecchiaia, bacchetta da illusionista, aspersorio con cui benedire i fan. Robbie gioca in casa: l’aveva detto nel 2006 e lo ribadisce di nuovo: «Per me è un onore e un piacere suonare per il pubblico italiano in questo stadio.» E noi ci crediamo, perché certi lussi se li concede soltanto qui: dice di aver preparato un ringraziamento nella nostra lingua che però traduce con «Io ho un grosso pene.», i fan lo invitano alla verifica ma lui replica: «Sono troppo vecchio.» Poi arriva la triade acustica Millennium, Better Man, Sexed Up che anticipa la parte finale del concerto: Me And My Monkey, le festose Hot Fudge e Rudebox e l’inno non-sense Rock DJ, con teste giganti in glitter che trasformano il Meazza in una discoteca. Nel bis una suggestiva Feel, She’s The One e l’immancabile Angels, con tanto di fuochi d’artificio. La considerazione che l’Italia ha per Robbie va oltre quella che si riserva a un artista: è un personaggio nazional-popolare, l’istrione rubato al teatro, il comico del sabato sera, il personaggio per cui il fan club ufficiale nostrano, Robbie Williams Diario Italiano, si prende persino il disturbo di organizzargli una retrospettiva (con i ritratti dell’artista Gabby) nella prestigiosa cornice dell’ABC Mannequins di Milano. Robbie ha doti che si vedono raramente negli artisti (o presunti tali) della nostra epoca: trascina le masse ed eleva gli spiriti, come potrebbe fare un ottimo leader politico o religioso. Per una sera abbiamo visto Milano trasformarsi in una monarchia e, a sentire il coro a una sola voce del Meazza nel finale di Angels la domanda sorge spontanea: è solo amore? O il devoto omaggio dei sudditi al loro unico e benevolo sovrano? Noi non abbiamo dubbi.

di Lucia Gerbino

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