Sulle orme di Marco Polo al ritmo di jazz
Affascinante quanto inaspettatamente simbiotico il binomio de “Le città invisibili”, spettacolo tratto dall’omonimo testo di Italo Calvino e messo in scena nella splendida cornice romana di Villa Celimontana. Qui, dall’alto del colle Celio, gli appassionati di musica “colta” godranno quest’estate di un fitto calendario nell’ambito del “Jazz Festival” che, nella sua diciottesima edizione, apre le porte all’arte in toto: dalla parola del teatro alla voce della poesia, dalla pagina della letteratura ai linguaggi del corpo. Un’occasione speciale per far rivivere, in questo caso, l’accoppiata testo e musica: da un lato alcuni stralci del famoso testo di Calvino, resi voce e fatti emozione dal sapiente attore Massimo Popolizio; dall’altro le note magistrali del sassofonista argentino Javier Girotto a fare da colonna sonora.
Al centro della storia c’è Marco Polo che racconta al sovrano Kublai Khan le descrizioni delle città toccate dai suoi viaggi nell’Impero: parla degli uomini che le hanno costruite, della loro forma e gente. Tutto ciò esiste però solo nella mente del viaggiatore veneziano che narra tutto nei dettagli invisibili agli altri. È lui stesso a creare questi luoghi, inafferrabili quanto utopici, proprio mentre li racconta. E così come Calvino è artefice di una scrittura che fa riflettere il lettore offrendo chiavi di interpretazione quanto mai attuali (…È il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo…), Popolizio, dal canto suo, offre allo spettatore il cuore e il pathos di una voce vibrante che assume i toni dell’avventura e a tratti dell’ironia. Chi comanda il racconto non è la voce ma è l’orecchio, dice Marco Polo. E lo spettacolo, facendo sua questa affermazione, lascia al pubblico la libertà di creare il proprio percorso mentale, guidato da un dialogo incessante tra voce e musica che insieme parlano dell’altrove, del viaggio, dell’essere dentro a emozioni senza interrogarsi.
Nella scelta dei testi la regista Teresa Pedroni ha deciso di dare rilevanza alla forma spettacolare della parola in grado di toccare la profondità del significato attraverso suggestioni e visioni immaginifiche. Anche la scelta del jazz come intervento musicale contribuisce a interpretare le sensazioni in equilibrio sul filo dell’ironia e della leggerezza: saxes, clarinetti e flauti andini intrecciano i loro suoni alla parola e a un complesso gioco di luci. Le conversazioni fantastiche tra l’imperatore Kublai Khan e Marco Polo hanno invece il compito di far emergere una zona intermedia in cui i due interlocutori trovano una sinergia che trasforma in realtà visiva i desideri dell’uno e i racconti dell’altro.
Un viaggio di un’ora e mezza alla scoperta di un mondo immaginario che sta un po’ dentro ognuno di noi, perché l’estraneità di ciò che non sei o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti come ricorda Popolizio e la grandezza di ogni viaggiatore che si rispetti sta nella sua capacità di godere non delle sette o settantasette meraviglie di una città, ma della risposta che questa da ad una sua domanda.
Un viaggio che si conclude con una constatazione dal sapore di verità assoluta. L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
di Teresa Gentile