A 31 anni dalla sua morte, un approfondimento sulla canzone-testamento del re del reggae
“Emancipatevi dalla schiavitù mentale. Nessuno oltre a voi può liberare le vostre menti.”(Bob Marley)
Redemption Song è l’ultima canzone dell’ultimo album di Bob Marley, “Uprising” (1980), nonché l’ultima che il re del reggae ha cantato dal vivo. La scrisse quando sapeva di dover morire, di non avere più tempo. Era il 1979 e a Marley era già stato diagnosticato il cancro che gli avrebbe rubato per sempre la vita. Ecco perché “Redemption Song” possiede quella commozione profonda e quel velo insopprimibile di malinconia di chi sa di avere il destino segnato. La morte si è presa Bob Marley nel sonno l’11 maggio 1981 all’età di 36 anni. Era mezzogiorno circa, 40 ore dopo il ricovero nell’ospedale di Miami e il cancro si era esteso al cervello, ai polmoni, al fegato e allo stomaco.
Robert Nesta Marley – questo il suo nome completo – credeva che lui e le persone a lui care sarebbero un giorno state libere dalla degradazione e dalla corruzione morale di Babilonia, terra senza confini in cui gli uomini sono contaminati dai loro peccati. Era certo che un giorno sarebbe entrato a Zion, la terra promessa dove Jah, Sua Maestà Imperiale Hailé Selassié, eletto di Dio, lo avrebbe accolto rispettando quell’appuntamento sacro attraverso il tempo e lo spazio e prendendolo per mano. Attorno al personaggio di Bob, paladino della libertà dei neri del mondo intero e figura carismatica del panafricanismo moderno, oltre che re del reggae, sono cresciute leggende grazie anche alla sua ossessione per la privacy che gli fece proteggere la propria identità con la mistica personale. Per la sua gente era una figura simbolica, soprannaturale, una personificazione del coraggio, uno sciamano: i connazionali, ammirati del suo essere passato dalla povertà più nera alla fama internazionale, ne apprezzavano la natura ineffabile e il comportamento impenetrabile. L’immagine più classica di Bob è quella del rasta felice: una enorme canna di ganja tra le labbra, strafatto e libero da ogni pensiero negativo. In realtà Marley proveniva da un passato di totale miseria e, proprio per questo, era uomo di grandi principi religiosi e politici. Per lui il ruolo di rockstar passava in secondo piano, eppure ha venduto milioni di dischi e le sue canzoni sono state reinterpretate dalle più grandi star del pop e del rock, da Eric Clapton a Paul McCartney, da Mick Jagger a Linda Ronstadt a Paul Simon.
Sebbene Marley sia stato un pioniere della musica reggae, “Redemption Song” è una canzone folk. Si tratta di una registrazione esclusivamente acustica, con voce e chitarra, senza accompagnamento. La versione più struggente e indimenticabile è quella relativa all’ultimo concerto di Marley a Pittsburgh, il 23 settembre 1980. Bob chiese il silenzio dopo essere tornato sul palco, poi prese la chitarra in totale solitudine. Attaccò la prima strofa, poi la seconda. “Emancipatevi dalla schiavitù mentale. Nessuno oltre a voi può liberare le vostre menti”. Poi fu la volta del ritornello: “Non volete aiutarci a cantare queste canzoni di libertà? Perché l’unica cosa che ho sempre avuto sono canzoni di redenzione”. Ad un certo punto si voltò verso i musicisti e si accorse che piangevano tutti. Piangevano i roadies, i manager, gli amici ai bordi del palco. Il dolore e la disperazione presero il sopravvento perché tutti capirono che “Redemption Song” era il testamento del Re del Reggae, nonché la più grande canzone che Bob Marley abbia mai scritto.
di Pamela Mariano