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Gods of Metal 2011: Judas Priest

Gods_of_Metal_2011_074_smallestDa Rocka Rolla a Nostradamus: i Judas Priest infiammano Milano nell’unica data italiana dell’Epitaph World Tour

 

Un’edizione decisamente orientata all’AOR, quella del Gods of Metal di quest’anno, che sarà ricordata anche per gli straordinari virtuosismi di Paul Gilbert e Billy Sheehan (Mr. Big), per la piacevolezza degli Europe di Joey Tempest e per il carisma intramontabile di un mito dell’hard rock come David Coverdale, sul palco con i suoi Whitesnake.

Il concerto più atteso, però, quello che raccoglie la punta di 10.000 spettatori della giornata, è quanto di più fedele ci possa essere allo stile e al nome della manifestazione. Uno show assolutamente e definitivamente “made of metal”: 2 ore e 15 minuti di heavy metal classico senza esclusione di colpi, snocciolato in una carrellata di hit e chicche imperdibili che ha ripercorso l’intera discografia di una delle band più importanti nella storia del genere: i Judas Priest. Quasi 40 anni di musica, almeno un pezzo eseguito da ciascun album a partire dal lontano 1974, in un concerto anche visivamente spettacolare. Se è davvero un addio – Epitaph è stato presentato come il “farewell” tour, l’ultimo tour mondiale della band di Birmingham – i Judas Priest non potevano uscire di scena in modo migliore.

In realtà, un nuovo album è già in preparazione (la pubblicazione è prevista per l’estate del 2012) e non è esclusa la possibilità di ulteriori esibizioni live (“a small string of dates”, “if it is something special or for a great cause”, si dice in dichiarazioni e comunicati), ma l’evento di Milano è stato per la band, con tutta probabilità, l’ultima data italiana di sempre. Pur se orfani del chitarrista K. K. Downing, ritiratosi improvvisamente nello scorso aprile e sostituto dal giovane Richie Faulkner, i quattro di Painkiller non hanno perso lo smalto dei tempi d’oro e sembrano anzi aver ritrovato nuova linfa, anche grazie alle notevoli prestazioni vocali di Rob Halford (che sembra stia raccogliendo i benefici di 3 anni di stop dal fumo).

Apertura al cardiopalma con Battle Hymn e Rapid Fire: quando il telone va giù e la scena si svela, la band è già interamente schierata e l’impatto è dirompente. Giochi di luce, laser, fiamme e lampi disegnano il palco di colori e chiaroscuri, sullo sfondo di una scenografia piuttosto essenziale. La scaletta è già nota ai bene informati e resterà sostanzialmente invariata per l’intero tour, ma contiene perle che non vengono eseguite dal vivo da molto tempo. Accanto a immancabili classici (per molti album la scelta è caduta sui pezzi più famosi e rappresentativi), spiazzano la gran parte del pubblico Never Satisfied da Rocka Rolla (1974), Starbreaker dal capolavoro del 1977 Sin After Sin e la bellissima Blood Red Skies da Ram It Down (1988). Per il resto, è una gran festa di hit: Metal Gods, Diamonds and Rust (acustica solo per metà), Turbo Lover, The Green Manalishi, una Painkiller perfettamente eseguita, The Hellion/Electric Eye e l’inevitabile Breaking the Law, che Halford lascia cantare interamente alla folla.

Con un palco monolivello, senza scale da salire o ascensori che lo facciano comparire all’improvviso, Halford è sostanzialmente sempre in scena e si muove continuamente da un estremo all’altro, concedendosi al pubblico. Tanti i cambi di giacca (dall’immancabile nera borchiata al jeans, ai tessuti riflettenti), tante le trovate sceniche più o meno attese: il mantello e lo scettro di Nostradamus, una ammiccante bandiera italiana per introdurre You’ve Got Another Thing Comin’, l’immancabile ingresso su una motocicletta cromata per l’encore Hell Bent for Leather.

Una prestazione inevitabilmente più statica rispetto a quelle della golden age, ma che non perde nulla in quanto ad atmosfere e intensità. Ritchie Faulkner – che, in apertura, imbraccia una Flying V e tende anche ad assumere alcune delle posizioni tipiche del proprio predecessore – dimostra di saper usare bene lo spazio che gli viene concesso. Rob Halford, dismessi ormai i panni del frontman iperattivo, si cuce addosso il ruolo di Gran Venerabile dell’heavy metal senza perdere in carisma, anzi acquistando un fascino tutto nuovo e confermando una volta di più la straordinaria versatilità della band. Il pubblico di Rho ha potuto anche apprezzare un “Metal God” decisamente dirompente nel registro alto: gli acuti in Victim of Changes, Prophecy e Beyond the Realms of Death – più ispirata e rabbiosa che mai – sono da manuale.

Le date già confermate di Epitaph vedranno i Judas Priest impegnati in Europa, Sud America, Stati Uniti e Canada fino agli inizi del prossimo dicembre.

 

di Cristina Scatolini


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Svevo Ruggeri
Svevo Ruggeri
Direttore, Editore e Proprietario di Eclipse Magazine