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The Examined Life

The Examined Life - Stephen GroszStephen Grosz, psicoanalista racconta i suoi casi

Peter ha ventisette anni e lavora come ingegnere in una ditta. Insieme alla sua fidanzata ha preso un appartamento in affitto appena fuori Londra, dove conduce un’esistenza tranquilla. Poi, d’improvviso, il buio. Peter viene ritrovato in una chiesa con numerose ferite ai polsi, al collo e al torace. È chiaramente in uno stato confusionale, a causa delle droghe assunte, e ha tentato di togliersi la vita con una lama. Lo psichiatra dell’ospedale in cui giunge gli prescrive la psicoterapia cinque giorni alla settimana. Ed è così che il giovane si affaccia, per la prima volta, nello studio del dottor Stephen Grosz. Fino a che una lettera, però, non interrompe precocemente le sedute. Peter è morto, suicidato, dice la fidanzata, e non verrà più. Grosz, allora agli inizi della carriera di psicoanalista, ne resta profondamente turbato. Se non fosse, sei mesi dopo, per un messaggio, sulla segreteria telefonica. “Sono io. Sono vivo”. La voce è quella di Peter. E il bluff tradisce una fragilità disarmante, che quasi commuove. È l’inizio di uno dei casi del dottor Grosz, tutti raccolti in un libro, “The examined life”, uscito nel 2013 per Chatto & Windus, storica casa editrice britannica. Venticinque anni di onorata professione, oltre cinquantamila ore di consultazione per smascherare la vita e restituirla al lettore in trenta brevi, illuminanti capitoli. Vizi e virtù dell’animo umano messi a nudo con meticolosa generosità, che ripercorrono la tradizione della case-history. Prima di lui, Freud aveva fatto della stanza d’analisi il luogo d’eccellenza della non fiction. Come se là dentro fosse contenuto il mondo intero, fuori il nulla. E bisognasse raccontarlo. Per Grosz però quella dimora è diventata angusta: il gergo psicoanalitico separa, inquieta e allontana. Ecco che, allora, la letteratura sembra offrire la risposta che manca.

In “The examined life” c’è un po’ di Carver, Cheever e Calvino, meno Jung e Lacan. E vi è la certezza incrollabile, di socratica ispirazione, che una vita non analizzata non valga la pena di essere vissuta. Ogni paziente traccia il suo destino, mentre Grosz, da più vicino che si può, fin dove le regole deontologiche consentono, lo guarda agire. E quello che vede è la medesima scena che si ripete, mai uguale. Uomini e donne alla ricerca di un cambiamento che, talvolta, stenta a realizzarsi. O che, altrettanto spesso, rivelano insanabili contraddizioni. Come nel caso di Abby, ripudiata dal padre ebreo strettamente osservante, dopo essersi sposata con un giovane cattolico e biondo. Peccato che, in seguito, venne alla luce la relazione clandestina che il padre ebbe per anni con una sua segretaria, cattolica e bionda: “più grande è la parte anteriore, più grande è il retro” scrive Grosz, spiegando il meccanismo, ben noto agli psicoanalisti, della scissione.

Oltre settanta persone finiscono nelle pagine del suo libro, compresi antenati, conoscenti, colleghi, vicini di casa e amici. Tutti protetti da un nome di fantasia, s’intende. Ma quanti fra questi non avranno faticato a riconoscersi? Grosz, su questo punto, non ha dubbi: la storia del caso costituisce il fondamento della clinica, e non potrà, in alcun modo, essere sostituita da pratiche anonime di raccolta dei dati. Senza il racconto di ogni singolo paziente, che, suo malgrado, ci mette la faccia, nessun cambiamento è realmente possibile. Se non altro perché la verità va condivisa.

Opera prima di Stephen Grosz, il libro ha il merito di restituire alla psicoanalisi l’originaria vocazione all’ascolto e all’incontro. Soprattutto laddove la vita mostra il suo lato più debole, nell’immaginare un futuro diverso per ciascuno.

di Michela Carrara