Hanno in comune un testo che è una poesia. Per entrambe le categorie d’arte, la canzone e la poesia, è in atto da tempo una disputa, a volte giocosa, su quanta poesia ci sia nella musica d’autore e fino a che punto alcuni testi di canzoni possano spingersi ad essere vere poesie. La materia non è sicuramente delle più interessanti, per il semplice fatto che la nozione di poesia, essendo vincolata al linguaggio, può di fatto slegarsi dallo stesso e orbitare altrove, assumere un valore poetico nel momento in cui si assiste ad una riproduzione sentimentale, emotiva o civile, valida. Per cui conta la canzone quanto la poesia. Il problema è lo strumento tecnico, lo strumento musicale che si aggiunge al testo e che amplifica la canzone. Un testo o nasce per essere musicato, oppure nasce per non essere musicato. Una particolarità dirimente, perché fa fede al tipo di linguaggio e spiega come ogni poesia scritta per essere un testo poetico, quando viene musicata (pensiamo a San Martino di
Carducci musicato da
Fiorello) diventa immediatamente ridicolo, perde smalto, aura. Per cui possiamo dire che la poesia è tutto ciò che rimane intatto nel testo e che rifiuta la musica che danneggia l’ordine testuale. Quando un testo, letto senza musica, resiste, allora quel testo è più poesia che canzone. La canzone è tutto ciò che sopravvive, invece, grazie alla musica: molti testi di canzoni senza la musica non avrebbero importanza e non sarebbero riconoscibili. Allora si dica pure che
De Andrè,
De Gregori,
Dalla,
Vecchioni,
Guccini,
Battisti e tanti altri sono poeti, ma la questione concreta non è quanto questi lo siano nella coscienza popolare, ma capire quanto i loro testi abbiano assunto una valenza da essere anche poetica. Per cui tra musica e poesia ci sarà sempre un filo conduttore che li tiene unite, ma la poesia resterà sempre la poesia e la canzone resterà sempre la canzone. Le due cose, benché vicine e legate da figure retoriche, rimangono distinte.
Vasco non è
Dante,
Leopardi non è
Guccini. Nel caso dei
Nomadi assistiamo ad un “furto”, diciamo così, compiuto per meglio solleticare e stimolare un’idea che era in fieri, e che grazie alla lettura di un testo poetico diventa meglio definibile. Certamente rubare, nell’arte, è il privilegio dell’artista capace nel farlo: Leopardi sosteneva di copiare il meglio dai mediocri che, in quanto tali, non erano riusciti ad eccellere, però avevano avuto buone idee, buone intuizioni. L’artista geniale è, di solito, un ladro geniale. Così
I Nomadi hanno letto il sonetto scritto da
Rimbaud nel 1870, dal titolo
Il male, e ne hanno intuito una potenzialità che, forse, non è nell’intento neanche anticlericale, come è nella sostanza il testo del giovane poeta francese, ma più indirettamente legato ad una dissimulazione satirico-religiosa che vuole ammettere che c’è un Re nei cieli che ride e sorride delle sciagure umane, e non interviene mentre gli uomini si uccidono e fanno guerre. Da
Il male di Rimbaud nasce
C’è un Re dei Nomadi. L’operazione è una miscela ben riuscita di musica e poesia, la dimostrazione che entrambe si suggeriscono idee e soluzioni; ancor più nell’ascoltare I Nomadi che cantano
C’è un Re si comprende quanta potenzialità abbia la poesia che, a torto, rimane relegata in un angolo della comunicazione in cui i linguaggi più pratici, veloci, moderni, la superano e la condannano. Ma è la poesia, se essa non fosse perdente in partenza non sarebbe così entusiasmante leggerla e studiarla, non sentiremmo l’obbligo dei poeti a scuola e lo svago della canzone fuori dalla scuola, nelle gita scolastiche.
C’è un Re (I Nomadi) Il male (A. Rimbaud)
Mentre il fucile urla fuoco tutto il giorno Mentre gli sputi rossi della mitraglia
Volano avvoltoi nel cielo blu attorno fischiano tutto il giorno nell’azzurro infinito;
Avanza il battaglione mentre rossi o verdi, accanto al Re che li irride,
Brilla il ferro e l’ottone cadono i battaglioni compatti sotto il fuoco;
Cadono sull’erba mille bravi cittadini
Mentre una follia orrenda maciulla ed accatasta
C’è un Re che non vuol vedere centomila uomini in un fumante cumulo;
C’è un Re che non vuol sapere – poveri morti! d’estate, in mezzo all’erba, nella gioia
della Natura che santi li aveva generati!… –
Mentre il cannone lancia lampi nel cielo
Rullano tamburi incalzano zampogne – C’è un Dio che ride fra i damascati drappi
Insieme nella polvere sangue e sudore dell’altare, fra gli incensi ed i gran calici d’oro;
E cadono sull’erba mille bravi contadini un Dio che s’assopisce cullato dagli osanna,
C’è un Re che non vuol vedere e si risveglia, quando le madri, unite
C’è un Re che non vuol sapere nell’angoscia, piangendo sotto la cuffia nera,
gli offrono una moneta chiusa nel fazzoletto!
C’è un Re che dorme rapito dalle rose
Non si sveglia nemmeno quando madri silenziose 29 settembre 1870
Unite nel dolore a giovani spose
Gli mostrano un anello con inciso sopra un nome
C’è un Re che non scende dal trono
C’è un Re che non fa nessun dono
di Domenico Donatone