Esistono dei luoghi nel mondo in cui il tempo sembra essersi fermato. La spiaggia di Egnazia, vicino Fasano, è uno di questi. Chiusa tra il mare e le antiche necropoli messapiche, riporta i segni indelebili di una vita precedente: lastre di pietra scura erose dall’acqua, tombe che somigliano a vasche per i bagnanti, percorsi obbligati di pietra che conducono al lido. È qui che, il 27 ottobre del 1959, viene rinvenuto il cadavere di un uomo, nascosto in un sacco, tra le rovine e i flutti. A compiere la macabra scoperta sono due cittadini fasanesi, un vigile urbano e un pescatore. Ma qualcosa non quadra sin dall’inizio. A quell’uomo mancano testa, gambe e braccia. Ed è stato ripetutamente raggiunto al petto e altrove da una serie di coltellate. Difficile stabilire con esattezza la sua identità. Se non fosse che una tale Carmela Massafra, di Martina Franca, si presenta in commissariato a denunciare l’improvvisa scomparsa del marito. Si tratta di Francesco Judice, ventisette anni, di mestiere tagliaboschi. Prima di sparire nel nulla, riferisce la moglie, l’ha picchiata e ferita con un coltello. E la donna ne conserva i segni lungo il braccio sinistro. Viene il dubbio che il marito della giovane possa essere proprio l’uomo ritrovato, giorni addietro, sulla spiaggia. E da lì alla verità il passo è dolorosamente breve. C’è una stanza, nella casa dei due, al pianterreno, che ha solo un’apertura: il soffitto è ancora macchiato di sangue, in certi punti, come se qualcuno avesse cercato inutilmente di cancellare le tracce di un delitto. Per Carmela iniziano tempi duri. Fermata dai carabinieri, nega, a più riprese, di essere l’autrice di quell’efferato omicidio. Anche se suo è il lenzuolo in cui è stato avvolto il cadavere, sua la bicicletta col portapacchi sopra il quale è stato caricato il corpo mutilato sino al mare, sue le impronte lasciate ovunque. Carmela si difende: è vero, sì, l’ha ucciso, ma è stato per legittima difesa. Quella sera Judice era rincasato tardi, e, ubriaco, aveva cercato di ferirla con un coltello, e la prova è in quel taglio lungo il braccio sinistro che la donna mostra agli inquirenti. A quel punto, dopo averlo disarmato, Carmela gli avrebbe restituito non uno, ma venticinque colpi, provocandone la morte. Poi avrebbe riposto il corpo per tre giorni sotto il letto, affinché i figli, Cosimo e Angiolina, ancora bambini, non lo potessero vedere in quello stato. Infine lo avrebbe trasportato sino alla spiaggia di Egnazia per sbarazzarsene. Ma prima lo avrebbe fatto a pezzi. Un racconto dell’orrore che però suscita molti dubbi. Può un tagliaboschi, alto e robusto, lasciarsi disarmare tanto ingenuamente dalla propria moglie? Ecco che, allora, spunta l’ipotesi della premeditazione. A confermarla ci sono le chiacchiere della gente, ogni giorno più insistenti. Voci che parlano di urla, litigi, botte, sevizie. Percepite nel silenzio della notte, udite di nascosto, a sprazzi, mentre tutti dormono, oppure solo immaginate. E subito ritrattate. Carmela viene condannata all’ergastolo. Per i giornali dell’epoca è due volte colpevole. La chiamano “la figlia del diavolo”, “la belva di Martina Franca”. Una donna capace di uccidere il proprio compagno a tradimento, forse nel sonno, secondo la ricostruzione dei giudici, per poi occultarne il cadavere, non merita alcuna attenuante.
Eppure oggi la storia di Carmela Massafra appare sotto una luce diversa. La lunga serie di femminicidi ha restituito allo sguardo la lucidità necessaria a separare il dolore dall’impotenza, l’amore dalle sue possibili declinazioni e storture. Nel libro “La figlia del diavolo” di Anna G. Semeraro (Schena Editore, 2012), si ripercorre la vicenda nella certezza che Carmela sia una delle tante vittime inconsapevoli di una società arcaica e maschilista, in cui le donne le prendono di santa ragione e basta. Senza mai reagire, senza dire una parola, senza fiatare. E quando accade, come è successo a Carmela, lo fanno nel peggiore dei modi possibili. Con la rabbia cieca di chi alla violenza risponde con altrettanta brutalità. Sette anni di matrimonio, vissuti nell’angolo, hanno portato la giovane sposa di Martina Franca a un gesto estremo. Lei stessa spiegò alla Corte di essersi sentita come “indiavolata”, in preda a un raptus incontrollabile. Nessuno si sognò, tuttavia, di concederle la seminfermità mentale. Ma è il 1959, e i tempi cambiano in fretta, anche laddove sembrerebbe il contrario.