Lunedì 18 giugno presso Università di Roma La Sapienza è stata presentata in anteprima l’opera Buffalo Soldiers, dell’International Opera Theater di Philadelphia, scritta e diretta da Karen Saillant, in scena il 22-23 e 24 luglio a Città della Pieve presso il Teatro degli Avvaloranti ed il 27 luglio a Roma presso il Teatro Valle (Occupato) di Roma.
Ho incontrato Karen in un piccolo bar di San Lorenzo. Quando è entrata, l’ho riconosciuta immediatamente, pur non avendola mai vista prima. È una figura elegante, i capelli candidi e gli occhi azzurrissimi, e un’aura di energia positiva la circonda e la accompagna. Si è seduta con me e, nonostante il caldo afoso di Roma, ha ordinato il classico english – tea. Poi abbiamo cominciato a chiacchierare come se fossimo già vecchie amiche. Mi ha raccontata la sua esperienza: per più di quarant’anni ha creato lavori artistici innovativi, che esplorano le possibilità della musica, della danza e delle arti figurative, così come le potenzialità del corpo e della voce umani nell’espressione delle emozioni. Tutte queste cose, musica-danza-teatro-arte-attore si sposano e si fondono, nella visione di Karen, e creano tutte assieme una armonia che si avvicina molto a quella che fu la wagneriana concezione d’arte totale, ma con una “clausola” fondamentale : la totale libertà dell’attore. È a partire da questa libertà che l’attore può trovare se stesso, la propria verità o, come lo chiama Karen, il proprio stato primordiale, quello scevro di giudizio … e di civilizzazione. Solo trovando questo nucleo fondamentale l’attore può restituire al suo pubblico vera arte e non soltanto una imitazione, quel fastidioso “over-acting” (recitar troppo) che tanto spesso è attribuito agli attori italiani, caratteristico di un teatro che ormai non esiste più.
“Sono gli attori che decidono quello che vogliono fare” mi spiega Karen, quando le chiedo di illustrarmi il suo modo di lavorare in teatro “Io sono lì, ovviamente, e c’è la mia energia, e la mia energia crea lo spazio per gli attori, dentro il quale ciascuno di loro può trovare se stesso ed, in seguito, il proprio personaggio”
Ovviamente non vige la totale anarchia sul palcoscenico, anzi, Karen è una regista piuttosto meticolosa, oltre che estremamente esigente. Ma, avendo l’innata sensibilità e capacità di “guardare oltre” e dentro le persone, crea la propria compagnia e ci lavora in modo tale da tirar fuori da ciascuno dei suoi membri il massimo delle proprie potenzialità. A tal fine Karen ha creato una serie di esercizi :
“Il primo esercizio che propongo consiste nel carpire informazioni. Ciascun attore deve prendere queste informazioni dagli altri. Questo avviene attraverso alcune semplici improvvisazioni, che permettono agli attori di essere più vicini, sia fisicamente che psicologicamente. Un insieme di individui e di individualità, e questo è ciò che deve essere mostrato al pubblico” mi spiega “Capire ed essere capiti. Questa è la cosa fondamentale sulla quale si concentra il mio lavoro” conclude.
Ma come affrontare il lavoro con Karen? Questa è la domanda che, da attrice io stessa, le pongo.
“Il punto di partenza è il not knowing” mi spiega, ovvero sia il non – sapere. Apparentemente socratico come concetto, ma assolutamente vicino alla realtà di ogni attore, che deve essere una tela bianca all’inizio del proprio percorso, ed un bel quadro al suo termine. “La prima cosa, quella che faccio durante i miei stages, è permettere all’attore di scoprire quello che non sa. Dopo di che, il passo successivo è mostrarlo. Io sono una persona vulnerabile, e voglio che lo siano anche i miei attori” continua. Ed è da questa vulnerabilità che, secondo Karen, nasce la spontaneità che lei ricerca assolutamente in ciascuno dei suoi attori.
Chiedo a Karen quali criteri abbia utilizzato per assemblare il proprio cast di Buffalo Soldiers, che è la prima opera totalmente internazionale, sia per quanto concerne la regia che il cast artistico.
“Ad essere sincera, questo casting non è stato semplice” mi confida “Innanzi tutto va detto che la nostra compagnia non fa mai audizioni. Lavoriamo attraverso segnalazioni di attori, e di questi artisti poi noi facciamo ovviamente una selezione. Tutti i cantanti sono artisti di alto calibro : George Shirley, il primo tenore Afro Americano a cantare alla Metropolitan Opera, Efrain Amaya, un compositore venezuelano che scrisse la musica per la nostra opera La Bisbetica (ispirata alla Bisbetica Domata di Shakespeare, n.d.t.), il grande baritono egiziano Ashraf Sewailam, e molti altri. Nel caso di Buffalo, avevo bisogno di determinate fisicità, dunque è stato ancora più difficile : quest’opera necessita cantanti d’opera, di nazionalità afro-americana (con la pelle scura), non eccessivamente grossi o alti … non cercavamo atleti o giocatori di palla-canestro, insomma!, cercavamo qualcosa di totalmente al di fuori da questo stereotipo. In più, ovviamente, dovevano essere buone voci, e anche bravi attori … esserlo già o esserlo in potenza” conclude.
Domando a Karen come e in che senso Buffalo Soldier sia in qualche modo differente da tutto ciò che aveva scritto o diretto prima.
“Nel corso degli ultimi otto anni abbiamo creato e messo in scena ben otto prime mondiali in italiano. Buffalo è la prima opera bilingue, scritta sia in inglese che in italiano. Sei delle nostre sette opere precedenti erano basate su Shakespeare, una sul Decamerone. Questa è la prima opera in italiano che sia basata su un soggetto storicamente moderno. Buffalo Soldier è la prima opera che unisce due culture, è la nostra unica opera che abbia scene di guerra e la prima opera che ci impone, per ovvi motivi, di scegliere i personaggi anche in base alla loro etnia. Io ho diretto e creato altre tre opere molto diverse da questa, basate su Maurice Sendak e il suo lavoro: Holocaust e Fin de Siècle de Paris. Erano lavori sicuramente più piccoli e non opere nel senso “tradizionale”, anche se avevano aspetti operistici. Sicuramente c’è anche una chiave comune che unisce Buffalo Soldier e le nostre altre recenti opere, ed è questa: parlano tutte di ingiustizie sociali. Io sono molto sensibile a questo tipo di problematiche, e di situazioni, dove forte è il senso di fragilità della persona, e di abbandono. Questo è perché io stesso l’ho vissuto : sono orfana. In Holocaust i bambini non riescono a tornare a casa. In Buffalo Soldier i soldati non riescono a ricevere il riconoscimento d’onore che meritano e di cui hanno bisogno. Molti di loro furono abbandonati dai loro ufficiali superiori sul fronte, in prima linea, spesso lasciati senza munizioni. I soldati di Buffalo erano dei segregati, ai quali non era permesso di sedere davanti sull’autobus o a mensa. Potevano bere soltanto dalle fontane destinate alle persone “di colore”. I Partigiani, dopo la guerra, a dispetto dell’enorme sacrificio delle proprie vite, allo stesso modo non furono riconosciuti per il loro eroismo, o ringraziati appropriatamente per i loro sacrifici. Il Terzo Reich decretò che per ogni soldato ucciso da un partigiano, dieci italiani innocenti sarebbero stati uccisi “in cambio”. Ecco perché molte persone sentivano che i Partigiani fossero responsabili per le morti dei propri cari, e non riuscivano a rendersi conto di come invece loro stessero combattendo a scapito delle proprie vite per la libertà comune. I Partigiani, insomma, son stati abbandonati dai propri compatrioti. C’è una grande vicinanza tra la sensazione d’abbandono e quella della perdita di speranza. E questa combinazione di ingiustizia ed abbandono è stata per me d’ispirazione (“evocative”, dice, n.d.t.). Ecco perché l’ultima scena è stata così difficile da scrivere, per me : a dispetto della trama, volevo che alla fine rimanesse un messaggio di gioia e, soprattutto, di speranza”.
E questo è quello che Karen Saillant vuole lasciarci prima di “tornare a casa” sua in America : il suo lavoro è un invito alla riflessione, e il suo messaggio invita al rispetto per il prossimo, alla comprensione e alla compassione per le sofferenze e per le discriminazioni, e un invito a combattere per la libertà.
È un invito alla libertà dell’uomo come a quella dell’artista. E noi ci auguriamo che questo non sia solo un sogno, ma una realtà che possa diventare vicina e presente anche qui in Italia, grazie all’aiuto di persone come Karen.
di Chiara Alivernini