“Il Living Theatre è una compagnia teatrale sperimentale contemporanea, fondata a New York nel 1947 da Judith Malina e Julian Beck” (cfr. Wikipedia)
Gary Brackett incontra il Living Theatre a metà degli anni Ottanta, e inizia a collaborare col gruppo nel 1989. Esperto di biomeccanica e yoga, dirige dunque in Italia più di cento stages. Contemporaneamente, prosegue il suo percorso teatrale (da solo e assieme al Living) unendo al teatro anche la video-arte. Ma chi è davvero Gary Brackett, oltre ad essere la figura di riferimento del Living Theatre dal “nostro lato dell’oceano”?
GARY B. – Un artista, al giorno d’oggi, si deve confrontare col contesto lavorativo che lo circonda, e così con le forme e i contenuti presenti nel suo ambiente artistico. Ogni artista deve saper vedere queste forme e gli stili e cercare di rispondere attraverso essi ai propri bisogni, trovare la sua voce.
Queste le prime parole di Gary durante il nostro breve ma interessante incontro. Qui, tuttavia, sorge la domanda : cosa significa esattamente per il Living e per te “sperimentazione”? Su tutti i manuali di testo infatti si parla del Living come il gruppo teatrale sperimentale per eccellenza.
GARY B. – Nessuno vuole ripetere cose già viste o già fatte. Ad esempio nella pittura – io dipingo – è più facile trovare, come dicevo prima, il proprio stile… in teatro è, forse, più difficile. Io non credo nello “sperimentare per sperimentare”, finalizzato a se stesso. Ho iniziato col teatro politico, e lo scopo del Living è prettamente uno scopo politico, così come anche Grotowsky, Barba, Brooke sanno rendere il loro teatro politico. Il Living è innanzi tutto un confronto con quelli che sono i problemi politici e sociali – le stesse guerre, anche! – ed, ecco, io sperimento in questo senso. Jude (rif. Judith Malina) diceva sempre : “dobbiamo avere qualcosa di importante da dire”. E, dunque, ecco la necessità che abbiamo di trovare la forma giusta per comunicare … qui entra dunque in gioco un nuovo strumento, la tecnologia, che fa parte di quest’epoca.
Gary, ma gli attori, con te, sperimentano?
GARY B. – Beh… durante i laboratori sì. Il Living Theatre in particolare, come gruppo… è sempre in continuo sviluppo. Beck è morto, 2 anni fa è morto il marito di Malina, le persone sono cambiate, gli attori cambiano, si rinnovano, e – purtroppo – non ci sono risorse umane fisse. Io, ad esempio, non lavoro più con Judith a New York perché non potrei sopravviverci! Nessuno, al giorno d’oggi, può fare questo lavoro e vivere di esso. Quindi, purtroppo, qui in Italia il mio gruppo è sparso qua e là, a nord e a sud, ed è veramente molto difficile stare insieme… ci manca una sede fissa dove poter lavorare! E poi, oltre che essere in città diverse, per sopravvivere ognuno fa anche un altro lavoro fuori dal teatro. È difficile far rinascere l’idea di Grotowsky, poter stare insieme a lungo, lavorare, parlare, fare un lungo training, un vero e proprio lavoro di comunità, per tutto il giorno. Dopo la morte di Beck il Living Theatre si trova in un periodo difficile negli Stati Uniti, durante Regan. La visione, dunque, cambia, si cerca prima il teatro – inteso come luogo fisso – e poi, solo poi, la compagnia, mentre per me la cosa funziona all’opposto! La strategia del Living e di Julian è diversa, forse è stanco di essere un nomade.
Com’è il tuo lavoro qui, in Italia?
GARY B. – Ecco, io qui in Italia lavoro soprattutto con i principianti, e la cosa mi piace. I professionisti sembrano solo cercare altre cose da “mettere sul curriculum”, imparare nuove tecniche. Io, invece, non credo che l’attore debba cercare tanto la tecnica, ma piuttosto la verità, è anzi un lavoro concentrato sul “togliere”. Sto cercando qualcosa che sia vero a livello umano, come – ad esempio – è vero un attore che trema dietro le quinte. Perché poi, quando si accende la luce, ecco che torna “il teatro”… e, per me, arriva la noia. Per me oggi il teatro è perso, persino Brooke con i suoi spettacoli è diventato tradizionale. Quello di cui abbiamo bisogno è l’attore, è il pubblico, è la necessità vera e propria di questo incontro. Quando vedo le persone entrare in teatro mi chiedo : che cosa vorranno? Perché sono qui? E questo è un momento storico, irripetibile, il momento dell’incontro tra palco e platea, è unico. Ormai il comportamento del pubblico – come quello degli attori – è standard, esattamente come andare al ristorante. Il pubblico si aspetta un certo comportamento dai propri vicini, gli altri spettatori, e così se lo aspetta dagli attori. Io dico questo: theatre needs to disappear. Il teatro deve sparire! Per diventare qualche altra cosa. Certo, io non so cosa potrà diventare… per me è solo l’inizio di questa ricerca, è la mia tela bianca, è sempre una prima volta davanti a quella tela. I cosiddetti “professionisti” spesso dicono del mio lavoro “Mah, più che teatro direi che è stata un’esperienza”. Ebbene, questo per me è un buon segno.
Ringraziamo Gary Brackett per averci concesso l’intervista.
di Chiara Alivernini