Il regista americano risponde alle domande del pubblico
Si è tenuto oggi, nel Teatro Studio Gianni Borgna dell’Auditorium, l’incontro con il regista americano Brad Anderson che, dopo la calorosa accoglienza riservata al suo Stonehearst Asylum, è tornato al Festival di Roma per rispondere alle domande del pubblico. Un lungo incontro durante il quale il regista ha parlato dei suoi esordi e ha commentato alcuni dei suoi maggiori successi.
«È vero sono stati diversi. I miei primi film erano commedie romantiche. Quello che ricordo è soprattutto che non erano film finanziati. Quello, per esempio, era quasi “fatto in casa”: i soldi me li hanno dati la mia famiglia e i miei amici, avevo 20.000 dollari sulla carta di credito. Anche il secondo film Next Stop Wonderland, anche quello molto gradito al Sundance, è un’altra commedia che parla di due ragazzi di Boston molto sfortunati in amore. Diciamo che quelli erano “film alla giornata”. Io però ho sempre trovato più interessanti le storie dark a cui poi sono arrivato con Session 9. Da quel momento in poi sono un po’ andato avanti e indietro tra vari generi: horror, thriller, mistery e con Stonehearst Asylum ho fatto il mio primo film in costume. Diciamo che non mi piace rimanere legato a qualcosa di preciso: ci sono dei momenti in cui certi progetti mi attraggono più di altri.»
«È un film indipendente che abbiamo girato in soli 20 giorni. Come location abbiamo scelto questo manicomio abbandonato che si trova nel Massachussets e abbiamo scritto la sceneggiatura in funzione di quel posto, solo dopo averlo visto: è il luogo in cui hanno inventato la lobotomia, sembra un castello e c’è anche un cimitero, una fossa comune, dove sono seppelliti molti pazienti. Non potevamo scegliere un posto migliore. Ricordo di aver pensato che era tanto che non si facevano film horror di quel tipo e che avrei voluto farne uno io. E devo dire che film come Shining di Kubrick hanno fortemente influenzato Session 9. Poi c’è stato anche un grandissimo lavoro sul suono: volevo inserire piccoli elementi, qua e là, che “disturbassero” lo spettatore e mi sono avvalso della collaborazione di un musicista sperimentale. Grazie a lui credo di essere riuscito nell’intento di creare una “poesia tonale” che ti resta sulla pelle, un senso di disagio per cui, dopo aver visto il film, ti viene da dire: “Devo farmi una doccia.” »
«Certo e amo tutti i film “paranoici”. Penso a Repulsion e Rosemary’s Baby che sono state delle forti influenze. Per film come questi hai bisogno di attori straordinari e io ho avuto la fortuna di avere Peter Mullan per Session 9 e Christian Bale per The Machinist: artisti così ti rendono facilissimo il lavoro.»
«Alla Filmax avevano visto Session 9 ed erano interessati a lavorare con dei registi americani. Mi sono detto: perché no? Quella di The Machinist era la prima sceneggiatura di Scott Kosar e mi è piaciuta molto: c’è il personaggio principale che è un tipo strano, poco simpatico. Christian Bale ha accettato d’interpretarlo solo per passione perché, quel film, non aveva un grande budget. Ci tengo a precisare che nessuno di noi gli aveva chiesto di mettersi a dieta: quando si è presentato a Barcellona sembrava tornato, dopo mesi, da un’isola deserta. Ero sconvolto da come aveva ridotto il suo corpo. Siccome nella sceneggiatura il protagonista, Trevor, era descritto come “uno scheletro umano” consumato dalla colpa, Christian ha pensato che il miglior modo di rendere il personaggio fosse presentarsi scheletrico ed emaciato. E devo dire che aveva ragione. In The Machinist abbiamo avuto delle difficoltà relative alla scenografia: volevamo che nel film venisse rappresentata una cittadina americana “generica” ma non potevamo andare a L.A. perché la Filmax voleva che la produzione fosse in Europa. Quindi abbiamo ricreato tutto in Spagna, in modo tale che non si potesse capire dov’è girato. Mi sono trovato molto bene in Europa, al punto che, il mio film successivo, l’ho fatto con la stessa azienda.»
«In Transsiberian c’è molto di personale: all’università ho studiato russo, mi sono appassionato a Dostoevskij e ai film di Tarkovskij. E ho veramente fatto un viaggio sulla linea Transiberiana Pechino-Mosca: su quel treno ho incontrato tante persone di diverse culture, persone che poi stanno insieme per 6-7 giorni. L’idea era quella di questi personaggi che non possono scendere dal treno perché sono dei fuggitivi. Ho pensato che, fatta eccezione per alcuni film di Hitchcock degli anni ’40-’50 e poco altro, di film sui treni non se ne facevano da parecchio. Transsiberian è un film classico che mescola dramma e thriller e ha anche “un che” di esotico. L’abbiamo girato in Lituania perché con la Russia abbiamo avuto delle difficoltà: per girare lì avremmo dovuto mettere in mezzo la mafia. In questo film abbiamo la protagonista, Jessie, che uccide un uomo per errore e, non potendo scendere dal treno, cerca di cavarsela senza farsi scoprire. Poi però insinua un sospetto sia nel marito, che nel poliziotto interpretato da Ben Kingsley. La protagonista è uno di quei personaggi “in bilico” che mi piacciono tanto.»
«Direi di sì. In questo film le persone spariscono quando calano le tenebre e il mostro non lo vedi mai, perché è l’oscurità stessa ad essersi fatta minacciosa. Mi è piaciuto molto rendere quest’idea a livello cinematografico. Forse è il più classico degli horror che ho fatto. Però si parla anche della perdita e del modo di accettarla e c’è un grande studio sui personaggi.»
«Devo dire che, come tutti, sono legato soprattutto ai film che ho visto da ragazzo. Dei nuovi horror non vedo molto, a meno che non sia qualcuno a consigliarmeli. Quello che so è che mi è capitato di recente di vedere The Conjuring di James Wan e mi ha fatto davvero paura. Un altro film che mi ha letteralmente terrorizzato è Clean, Shaven di Lodge Kerrigan, non è recentissimo (è del ’94) ma mi sentirei vivamente di consigliarlo.»
«Forse è il mio thriller più mainstream: è un film in cui Halle Berry interpreta un’operatrice del 911 che riceve la chiamata di una ragazza che è stata rapita: cerca di usare la sua esperienza per trovarla. È stato bello avere una protagonista così forte. Forse il film è meno articolato di altri ma in passato ho lavorato con le donne: mi viene in mente Marisa Tomei per Happy Accidents ma ho fatto anche altro. A volte ho bisogno d’inserire personaggi femminili forti in storie più morbide. The Call è stato un esercizio per vedere se sarei riuscito a fare qualcosa di commerciale: i produttori ti danno retta quando fai molti soldi. Hai meno margine creativo ma una volta fai un film per loro, una volta lo fai per te.»
«È indubbiamente l’epoca dei film della Marvel e questo mi rende tutto più difficile. Eventi come il Comic-Con, frequentatissimi dal pubblico, spingono in questa direzione. Negli Stati Uniti è complicato trovare finanziamenti per film che non hanno un potenziale commerciale. Certo, poi ci sono casi come Gone Girl, che è in concorso a questo festival. Ma per fare film così, devi chiamarti David Fincher. »
di Lucia Gerbino