John Hurt, ospite di Eclipse, ci parla del film di Joon-ho Bong questa sera in anteprima
Persino i più anticonformisti tendono a nascondere un certo scetticismo nei confronti dei registi orientali, specie quando si avvicinano a un genere abusato come quello del sci-fi, sempre più improntato alla spettacolarizzazione visiva e poco interessato alle storie originali. Un discorso che vale per molti ma non di certo per il sudcoreano Joon-Ho Bong che, alla sezione Fuori Concorso dell’VIII edizione del Festival di Roma, porta Snowpiercer,un colossal fantascientifico che non manca di stupire.
Tratto dalla graphic novelLe Transperceneige, del trio francese Jacques Lob, Benjamin Legrand e Jean-Marc Rochette, il film racconta del fallimento di un progetto per porre fine al riscaldamento globale: una nuova era glaciale condanna la razza umana all’estinzione tranne i pochi “fortunati” che, nel 2014 vengono, trascinati con la forza sullo Snowpiercer (“Il foraneve”) un treno ad alta velocità che compie perennemente lo stesso giro del mondo. Dopo un breve cenno agli antefatti, il film arriva all’anno 2031, raccontando del microcosmo autarchico dei suoi prigionieri: il treno è un campione della società umana divisa in classi sociali, in cui i poveri occupano gli ultimi vagoni e i ricchi le carrozze anteriori. Il creatore e capo-treno è il perfido Wilford che, in stile orwelliano, controlla i suoi “ospiti” 24 ore su 24, godendosi anche attraverso le torture dei suoi sottoposti lo spettacolo delle lotte interne e degli invani tentativi di fuga dei prigionieri. Ma proprio in fondo al treno, un piccolo gruppo di rivoluzionari capitanati dall’anziano Gilliam e dal giovane Curtis, sta preparando una nuova rivoluzione.
Snowpiercer colpisce il pubblico per tanti motivi: l’atmosfera asfittica, i contrasti tra le varie carrozze del treno (dai bassifondi al lusso sfrenato), i momenti di calma che precedono gli scontri. Quello di Bong è uno sci-fi di due ore che tiene lo spettatore incollato allo schermo grazie al suo respiro internazionale, a scene d’azione ben orchestrate e a un ironia pungente, caratteristiche che fanno del suo film un’opera in cui nulla è lasciato al caso. Il treno fa da sfondo alle storie umane più disparate che possono contare su un’ottima sceneggiatura e su un cast stellare: Chris Evans, Tilda Swinton, Jamie Bell, Octavia Spencer, Kang-ho Song e John Hurt.
Ed è stato proprio l’attore inglese (noto al grande pubblico per i ruoli nel cult The Elephant Man e nei più commerciali V per Vendetta ed Harry Potter)a raccontarci Snowpiercer e la sua esperienza con il regista sudcoreano.
«Sono stato contattato da Bonge ci siamo incontrati: è stato un incontro fantastico ho avuto una vibrazione positiva da subito che non mi ha più lasciato. Lavorare con lui è stata un’esperienza incredibile: lui gira direttamente quello che vuole vedere, senza troppi preamboli.»
«Non proprio, ho una carriera estremamente variegata. Quando accetto di fare un film significa che c’è qualcosa che mi ha colpito nella sceneggiatura e nel personaggio che devo interpretare a cui sento di poter dare qualcosa di personale.»
«Lo definirei un personaggio enigmatico. A dir la verità non ho ancora capito neanch’io che personaggio è! Lui alimenta la rivoluzione sul treno ma non si può dire che ne sia il regista: è protettivo nei confronti della sua gente. Ma qualcosa succede nella seconda parte del film e vengono fuori altri aspetti di lui: se non è il regista forse è comunque seduto dietro quella sedia.»
«Non lo so. Dobbiamo capire bene il significato della parola progresso: se parliamo di tecnologia, ad esempio, possiamo dire che abbiamo fatto qualche passo in avanti per migliorare la qualità della vita e, parlando di cinema, se l’aspetto tecnologico può contribuire alla riuscita di un film, da attore dico: “ben venga”. Ma se ci spostiamo sul fronte umano? Ecco. In questo caso progresso è sinonimo di regressione e la tecnologia ci ha fatto perdere il contatto con la realtà e con le persone che ci circondano.»
«Partirei dal presupposto che nella storia dell’industria cinematografica gli sceneggiatori di storie originali sono “animali rari”, soprattutto ora. Credo sia proprio per questo che si prediligano quelle tratte da libri e fumetti. Alcuni film devono il loro successo alle graphic novel o ai romanzi ma credo che sia difficile, in termini cinematografici, competere con un originale ben scritto. Al cinema si può sicuramente portare un piccolo libro con un grande intreccio ma… mi fermo qui. Potrei andare avanti ma mi limito a dire che c’è molto bisogno di storie originali.»
«Direi di sì ed è una cosa che mi rattrista moltissimo. Perché credo che sia proprio in questi film “di mezzo” che ci siano le grandi storie di cui parlavo prima. Questo sistema è ormai gestito da uomini molto ricchi che mettono il business al primo posto: non è quello che si cerca nel cinema.»
«Non so cosa dire perché per me è un’idea assurda. Non ho visto Alien ma mi sembra complicata l’idea di realizzare il prequel di un film che era già di suo una “storia di partenza”. Ma credo che il fondo, nella storia del cinema, l’abbia toccato Gus Van Sant con il remake di Psycho: che senso ha realizzare una copia esatta di un capolavoro come quello di Hitchcock? Follia pura. Penso che a Hollywood sia molto diffusa l’idea che quando la formula di un certo film ha riscosso successo, allora tanto vale riutilizzarla per farne un altro. Ma è un’idea davvero sciocca.»
di Lucia Gerbino