Il mondo fino alla fine: Le interviste di Eclipse
Spiaggiati da una dimensione all’altra, il viaggio senza approdi di personaggi complessi, l’avventura incerta dell’amore e dell’auto-riconoscimento, dall’Italia alla Patagonia, la sconnessione mentale di due generazioni che si scontrano e ritrovano, e filtrano la realtà per la prima volta insieme.
Il racconto di un cambiamento provato sulla pelle, come ci hanno raccontato gli attori e il regista de Il mondo fino in fondo (Alice nella Città, Fuori Concorso), il giovane richiestissimo e già gigante della scena Luca Marinelli, il ventenne convincente Filippo Scicchitano e il regista esordiente Alessandro Lunardelli.
A.L. Volevo raccontare due fratelli legati da questo sentimento molto forte, anche di protezione reciproca, ma divisi da cose quasi insormontabili, un po’ per l’età, uno ha trent’anni, l’altro diciotto, e che devono liberarsi da alcuni sensi di colpa molto forti legati all’abbandono della madre. Volevo che ci fosse un grado di suggestione molto forte. Potevano rinchiudersi in uno sgabuzzino della fabbrica e affrontare il problema della non comunicazione, oppure lanciarsi in un viaggio, in cui la fuga di uno si trasforma in un viaggio-fuga per entrambi. Senza rete e alla ricerca di identità. Mi stimolava l’idea, ma girare in un paese straniero all’inizio ha fatto drizzare i capelli alla produzione. Ma hanno pensato che fosse anche interessante poi da portare fuori dall’Italia. Quindi sono stato mesi a raccogliere informazioni all’estero. La prima volta il senso di smarrimento è stato terribile, poi è diventato affascinante. Gli attori sono arrivati all’ultimo, quindi ho cercato di non raccontare niente, in modo che provassero le stesse emozioni.
F.S. È stato complesso, faticoso, ma anche un’avventura importante. Ne è valsa la pena.
L.M. La sorpresa dei personaggi è stata anche la sorpresa nostra, ci sono dei paesaggi pazzeschi, i ghiacciaia che sono là da milioni di anni. Non è semplice girare arroccati sui pick-up…è la prima volta che faccio un on the road, i cambi ci stagione da un momento all’altro, ma è stato bello.
A.L. Cambiavamo set tutti i giorni e spesso andavamo in luoghi dove non c’era neppure posto per dormire tutti insieme. Anche i ritmi di lavoro là sono diversi, ci siamo adattati giorno per giorno.
A.L. Il film prende le mosse da piccoli eventi autobiografici da cui in realtà si allontana velocemente. Volevo raccontare un po’ sentimenti e passioni all’interno di un conflitto generazionale tra due fratelli il cui problema più grande è la comunicazione reciproca. E poi in realtà non è nato in maniera autonoma come progetto on the road. Sono nati prima i personaggi principali, insieme. Loris poi Davide. Un po’ da un fatto di cronaca. Nel 2010 era emersa la figura di un imprenditore in un paesino del bresciano che aveva pagato le rette della mensa alle famiglie che non riuscivano, e le famiglie erano tutte extracomunitarie. Mi aveva colpito il fatto che il paese si fosse indignato per la cosa, mentre lui era rimasto nascosto. Io me lo sono immaginato non come un eroe, non un illuminato, ma uno che per un gesto di curiosità, un raptus, si era ritrovato a fare l’anticonformista per caso. Subito dopo è nata la figura di Davide, in un paese oppresso dove emerge un ragazzo con un problema di identità sessuale, che non ha prospettive, se non restare nascosto. La paura di Davide è restare imprigionato in un ruolo. L’on the road è venuto in seguito, un veicolo in cui si è sciolta la trama.
di Sarah Panatta