Tomas Alfredson dirige un cast imperdibile per un film indimenticabile
È difficile esprimere qualcosa di sensato, quando la visione di un film ti lascia profondamente senza parole. Allora lì capisci che è inutile raccontarne la trama, i risvolti principali: basta semplicemente aprire il cuore e dare libero sfogo alle sensazioni, quelle più profonde e, dunque, quelle più sincere.
Accade, dunque, che entri in sala convinta di vedere un film come un altro, una spy story ambientata negli anni 70 con un cast d’eccezione (Gary Oldman, Colin Firth e Benedict Cumberbatch dovrebbero bastare anche solo a rendere vagamente l’idea) e diretta dal maestro del brivido svedese Tomas Alfredson, ti siedi e resti ad aspettare i titoli di testa. A film cominciato, ti accorgi che il film sembra scorrere con una lentezza insolita e cominci a chiederti il perché. Dopo neppure mezz’ora di pellicola, tuttavia, alzi gli occhi e cominci a dare un senso ed un nome alle cose, ti guardi intorno ed esclami: cavoli, ma allora non siamo negli anni 70!
Sì, perché Tinker, Tailor, Soldier, Spy non è un film come un altro, no. Non è il solito thriller ad alta tensione realizzato per accattivare il popolino. Tomas Alfredson non è il solito regista da blockbuster pronto ad impugnare una macchina da presa per guadagnare qualche dollaro in più. Infine, Gary Oldman e compagni non sono i soliti attori pronti ad accettare qualsiasi ruolo gli si propini sotto mano per rimanere a galla.
Tinker, Tailor, Soldier, Spy è un film incredibile. Poetico, elegante, raffinato, vicino alle spy story e ai noir movies degli anni Quaranta e Cinquanta, il film interpretato dal magistrale Gary Oldman è come una macchina del tempo, capace di catapultarti letteralmente nel passato. Le atmosfere, i dialoghi lenti e pacati, la fotografia fredda e le ambientazioni fumose, rendono questo capolavoro paragonabile ai grandi classici del noir americano di un tempo, senza nessuna distinzione di sorta.
Tomas Alfredson, in cabina di regia, forte della sua precedente esperienza con Lasciami entrare (altro grande, grandissimo capolavoro) ha confezionato, dunque, una piccola opera d’arte, quasi fosse un valzer in crescendo, affidandosi ad una regia pulita, a tratti perfetta e priva di qualsivoglia sbavatura, ricordando allo spettatore che, spesso, è possibile fare del buon cinema senza troppi fronzoli.
Ma quel che più d’ogni altra cosa importa è che Gary Oldman è tornato. Ed è, ancora una volta, la testimonianza che esiste un Dio, da qualche parte.
Di Luna Saracino