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This Must Be the Place: un rock road movie perfetto

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This Must Be the Place: un rock road movie perfetto

Paolo Sorrentino crea il personaggio di Cheyenne, ex rockstar annoiata e un po’ depressa, per raccontare sulle note di David Byrne la musica, il rapporto padre/figlio, l’Olocausto

Dopo aver conquistato a Cannes 2008 il premio della giuria, allora presieduta da Sean Penn, con lo spettacolare biopic Il Divo, Paolo Sorrentino si sposta in America per dirigere l’attore nei panni di Cheyenne, una rockstar attempata e un po’ svampita lontana ormai da anni dalle luci della ribalta che vive tra agio e noia a Dublino insieme alla moglie Jane (Frances NcDormand). La morte del padre lo porta a tornare a New York e a scoprire l’ossessione del genitore per un nazista che ai tempi dell’Olocausto lo umiliò. Decide, così, di proseguire la ricerca laddove era stata interrotta per portare a termine il piano di vendetta del padre, imbarcandosi in un viaggio negli Stati Uniti foriero di incontri e di riflessioni.

Sorrentino torna dietro la macchina presa in grande stile, coniugando un’estetica composita e uno sviluppo tematico ricco di sottotracce. La realizzazione plastica delle immagini si alterna tra le incursioni dell’occhio cinematografico nella scena e i momenti di stasi in cui la composizione si fa quasi di tipo pittorico. La meticolosità della tecnica di ripresa non è mai mero autocompiacimento perché rispecchia, in ogni istante, l’intenzione narrativa dell’autore. Il lungo piano sequenza del live di This Must Be the Place dei Talking Heads eseguito da David Byrne (nei panni di se stesso) è un esempio di come forma e contenuto siano in continuo dialogo, nella misura in cui il rallentamento ritmico dà la giusta attenzione alla musica. La corrispondenza tra significante e significato si fortifica nella rappresentazione e nell’evoluzione di Cheyenne, la cui condizione psicologica è definita dalla presenza/assenza di accessori.

Casa è dove voglio essere/Ma credo di esserci già/Vengo a casa – lei ha sollevato le ali/Questo dovrebbe essere il posto. La canzone che ha ispirato il titolo del film segna un momento decisivo nello scioglimento della trama e nel percorso iniziatico che la ‘rockstar in pensione’ sta per intraprendere. Confrontandosi con David Cheyenne prende atto dell’effimera sua carriera artistica e, benché rinneghi il viaggio interiore che di lì a breve compirà («Non sto cercando me stesso. Sono in New Mexico non in India»), la presa di coscienza dello stallo in cui si ritrova è attivata dal loro incontro. Cheyenne è un personaggio oculatamente costruito per essere amato, è una maschera di cerone, rossetto e kajal dietro cui si nasconde un bambino deciso a non diventare adulto, è una star che si trascina dietro (metaforicamente e fisicamente) il peso della sua celebrità e di un passato irrisolto. La morte del padre lo spinge verso un viaggio negli States durante il quale può comprendere le motivazioni intorno alle quali il genitore ha organizzato tutta la sua vita e ricucire idealmente il rapporto spezzato tanti anni prima. La sregolatezza di Cheyenne è controbilanciata dalla concretezza della donna che da 35 anni gli sta accanto (una efficace Frances McDormand) razionalizzando le sue lievi manie depressive.

Cheyenne rischiava di essere una creatura talmente balzana da risultare forzata e inadeguata a reggere una storia che, prendendo le mosse da un contesto impegnativo come lo sterminio di massa, si dirama in più direzioni d’indagine. La scrittura minuziosa di Umberto Contarello e Paolo Sorrentino e il tocco interpretativo senza sbavature di Sean Penn hanno dato vita al personaggio più inaspettato eppure più adatto per guardare con originalità alla noia di un ex idolo musicale inattivo, alla passione per la musica, all’ancoraggio ad uno stato infantile difficile da abbandonare, alla riflessione su un rapporto padre/figlio compromesso, al viaggio come mezzo di scoperta. Con This Must Be the Place assistiamo ad un ‘rock road movie’ di formazione che rifugge dai generi e si concentra sul perfetto connubio tra la lucidità del guardare e la fascinazione del racconto.

di Francesca Vantaggiato

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