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Smetto quando voglio

Smetto quando voglio 1…ma non di sognare: la commedia disillusa di Sydney Sibilia

“No, questo no, non è l’inferno”, cantava a Sanremo 2012 Emma Marrone nell’omonima canzone “Non è l’inferno”. Invece Pietro (alias Edoardo Leo), protagonista dell’esilarante commedia di Sydney Sibilia, “Smetto quando voglio”, afferma esattamente il contrario: si è scatenato l’Inferno e siamo a un punto di non ritorno. È l’amaro racconto della discesa agli inferi di precari pluri-qualificati cacciati dal Paradiso (decaduto verrebbe da aggiungere) universitario nonostante i dottorati e le ricerche avanzate effettuate, con scoperte sensazionali.

I protagonisti sono tutti divorati dalla disperazione dell’assenza di lavoro (Arturo, alias Paolo Calabresi, è precario da 11 anni); e del fatto che non si “assumono laureati”: è la precisazione al colloquio di lavoro per un posto da meccanico fatta ad Andrea, alias Pietro Sermonti. Così decidono di seguire il consiglio impartito in tale occasione ad Andrea, di imparare a conoscere, a vivere e a destreggiarsi nella strada (della malavita organizzata ndr) e poi di tornare a colloquio. Pertanto tentano la scalata nei gironi di questa sorta di Purgatorio, rei di aver il difetto di aver studiato e di voler sapere; fino ad unirsi al boss dei trafficanti, travolti dall’imbuto infernale della criminalità governato dallo spacciatore Lucifero/Morena (alias Neri Marcorè), anch’egli vittima del precariato, definito senza mezzi termini “una tragedia”. Ed allora, se spesso si sente dire che “se il lavoro non c’è bisogna inventarselo”, per quale motivo non improntarsi spacciatori, anch’essi precari e a tempo determinato, magari per un giorno? Il giorno dei giorni, quello in cui fare fortuna, trovare il riscatto, prendersi ciò che è dovuto loro, che l’onesta ricerca del lavoro non paga e poi tornare alla routine quotidiana di tutti i giorni.

Intanto i protagonisti sembrano più trafficanti e spacciatori di ideali e valori più che di stupefacenti. Di stupefacente c’è soprattutto il loro stupirsi e il sorprendersi di fronte alla conoscenza di un mondo oscuro e delle loro capacità e volontà, soprattutto di fare e di essere una squadra. Una banda a tratti un po’ dell’anti-mafia, di gangster bonaccioni che non ci mettono molto a rendersi conto dei guai in cui si sono cacciati, a redimersi sulla spinta dell’affetto reciproco che ormai li lega; quasi a proteggersi reciprocamente, ma sanno che non possono rinunciare a un sano cinismo per sopravvivere in un mondo spietato governato dall’arrivismo e dalla legge del mercato, che guarda solamente al profitto. È la disperazione di sogni e speranze distrutti, dello sguardo disilluso di chi sa risorgere dalle proprie ceneri, pur restandone profondamente cambiato. Per sempre. È il potere dell’uomo di utilizzare la propria intelligenza a proprio vantaggio o, pericolosamente, a proprio rischio e pericoloso in maniera anche autodistruttiva; con la sua mania di controllare tutto, anche ciò che non si conosce. La scoperta arriverà alla fine di questo viaggio dei protagonisti, di questa squadra, tra perdizione e redenzione.

Gente che, finalmente, ha capito come va il mondo. Ed impara ad accettarlo, pur non condividendone molti meccanismi. I personaggi si improntano gangster, all’inizio quasi per gioco, poi sempre più coinvolti, pur non venendo da quella estrazione sociale, quasi angeli caduti da quell’Olimpo che sono gli studi universitari in cui ricercavano la purezza dei componenti chimici. Ed è comico vedere il frutto di questa contaminazione con l’imperfezione di una società allo sbando. La commedia, però, lascia posto a una rappresentazione cruda, ma mai violenta, della realtà dei fatti, che il regista offre con pennellate rapide, con una sceneggiatura che, velocemente, passa da un personaggio all’altro fondendone le vite singole in una, quella della Banda, quella di questa squadra di uomini, per un romanzo corale che diventa individuale. Un grosso contributo lo offre la musica, a partire da quell’iniziale “Why don’t you get a job?” degli Offspring. Esemplificativa poiché è su questo interrogativo che si tiene in piedi tutto il film, di cui, ribadiamo, la parte migliore è questa sceneggiatura così complessa ed articolata, eppure così lineare e chiara, che il pubblico riesce a seguire bene, nonostante i continui colpi di scena e complicazioni, con imprevisti tragico-comici.

Tanto che, dall’interrogativo: perché non hai un lavoro?, si passa a sfiorare la trattazione di tematiche ben più drammatiche: le stragi del sabato sera, i traffici di droga nelle discoteche, quelli di escort, anche straniere, negli ambienti alto-locati, i sequestri e i ri(s)catti di mafia, la lotta di gente onesta come Giulia (alias Valeria Solarino), compagna di Pietro, nelle comunità di recupero o nella polizia. E qui si riallaccia quella di chi, da corrotto e corruttore, diventa collaboratore di giustizia, forse anche questo in maniera precaria. D’altronde si è sempre soliti dire, immersi nel tunnel degli orrori, che tanto “Smetto quando voglio”. Il titolo dice già tutto dunque sulla linea sottile che incombe sul destino umano. Così come precario è l’equilibrio, tipico dell’esistenza umana, labile in cui, come si suol dire, si può passare presto “dalle stelle alle stalle”. Un errore ingenuo può essere tutto. E c’è un continuo giocare con questa dimensione verticale del film, in cui si passa appunto dal basso dei bassifondi e delle discoteche all’alto degli attici su cui si organizzano feste non meno “dannose” per l’etica morale. Un’ascesa anche metaforica, non solo simbolica di un modo di “fare carriera” anche all’interno di un mondo corrotto, ma anche personale, in quanto icona dell’inizio del risorgere una volta che si è toccato il fondo. Per dare un futuro migliore alle nuove generazioni, ai nuovi nascituri: il figlio di Pietro e Giulia. Tutto è curato nei minimi dettagli, dai costumi dei protagonisti, alle musiche, in questo film particolarmente potenti e non di solo sottofondo. Ottima, infine, a nostro avviso, la scelta del cast (peraltro non economico poiché si avvale di attori di spicco): innanzitutto Edoardo Leo, ma anche Libero De Rienzo (nel ruolo di Bartolomeo), che è quello che aggiunge più verve comica al film; Stefano Fresi (che interpreta Alberto), nel ruolo forse più struggente, poiché quello che più di tutti paga sulla propria pelle le conseguenze di questo inseguire un sogno che equivale a vivere un incubo; Neri Marcorè, che recita la parte di Morena, da ingegnere navale fallito, che dona una raffigurazione del male insolita secondo la logica del “siamo tutti nella stessa barca”, per cui gli ordini si invertono: chi era ai vertici ora chiede aiuto, chi doveva essere supportato diventerà la colonna portante cui fare riferimento; e ciò vale tanto per la criminalità quanto per l’istruzione e la cultura universitaria, di cui viene fornita un’invettiva non sarcastica, ma comunque pungente. Anche qui risiede la dignità di chi dovrebbe essere, apparentemente, solamente compatito e disprezzato col pietismo di solito riservato ai falliti e ai perdenti, ma che, invece, si riprende il suo posto nella società per guidare il cambiamento. Sarà precario anch’esso? Chissà: tutto finisce per ricominciare in questa commedia in cui si ride con gli occhi tristi di chi è costretto a lottare tutti i giorni per potersi permettere di comprare una semplice lavatrice.

di Barbara Conti