In questa miniserie in tre episodi di 50 minuti la storia di una giovane adolescente ribelle. Presto la seconda stagione
Dalla Francia al Roma Fiction Fest è arrivata una mini serie in tre episodi di circa 50 minuti: “Trois fois Manon”, del regista Jean-Xavier Lestrade. Manon è il nome di una giovane adolescente “ribelle” di 15 anni, che finisce in un centro di rieducazione per sei mesi, dopo aver accoltellato la madre. È una storia di redenzione, di liberazione di questa ragazza dalle proprie paure, della sua capacità di gestire la rabbia e la violenza. Fino ad apprendere la lezione che: “più sono fragile, più sono debole”. Uscita in Francia il 10 aprile scorso, già ne è stata annunciata la seconda stagione. Da sempre il regista ha mostrato particolare interesse per le problematiche sociali quali: la violenza sessuale, la follia, la morte, l’esclusione, la discriminazione e tutti i tabù tipici della società. Col fratello gemello, Thierry Vincent, ha anche costituito un’agenzia di stampa, intitolata Tribulations, per cui si è dedicato sempre al genere del documentario. Il più importante è stato “Un coupable idéal”, per cui ha ottenuto un Oscar nel 2002, quale miglior film documentario. Per “Manon”, invece, ha conseguito quest’anno anche il premio Fipa d’Or per la miglior fiction.
Manon, infatti, è la storia di personalità fragili, intrappolate nella loro solitudine, finché non ne escono con l’aiuto dei loro educatori. In questo loro lungo percorso di formazione impareranno ad estraniare le loro emozioni ed a gestirle con l’aiuto di un metodo innovativo, quello della loro insegnante: Madame Barthélémy (interpretata da Aix Poisson). Quest’ultima insegnerà loro a conoscersi meglio, a guardarsi dentro, a comunicare tramite le favole. Quasi per sottintesi verrebbe da dire. E a non aver più paura neppure di amare. Il suo metodo contrasta ferramente con quello più rigoroso e tradizionale del rispetto della disciplina e delle regole del direttore del centro: Monsieur Gauvert (François Loriquet). Ed è questo il vero tema del film, più che la storia di questa giovane ragazza, Manon, e delle altre coetanee. Un cambiamento possibile attraverso un percorso di comunicazione, che intenda scambiare alla pari, mettendosi nei panni dell’altro e disposti a usare i mezzi di comunicazione dell’altro, per eliminare ogni forma di dipendenza, per trovare la propria indipendenza ed autonomia, rivendicando il proprio ruolo in società, eliminando ogni forma di giudizio. Ognuna delle protagoniste ha alle spalle storie di sofferenza, violenza, spesso di droghe e di abusi. E devono superarle per ritrovare fiducia e speranza per credere che una possibilità di un futuro diverso, di trovare la propria strada ci sia anche per loro. E, soprattutto, per vedere che esiste anche un altro mondo, oltre a quello di sofferenza, ingiustizie, a cui anche loro possono accedere. E finalmente imparare anche ad accettarsi, non considerarsi perdenti, cattive ragazze, buone a nulla. Inutili in una parola, ma anzi, al contrario, parte attiva della costruzione di questo cambiamento di cui Manon è la principale rappresentante. Ed a cui arriva grazie all’aiuto di Lucas Rivière (alias Yannick Choirat), ragazzo che la accetta per quello che è, facendole capire che anche lei ha delle qualità e che nessuna via le è preclusa, né c’è una sola strada percorribile: le regole esistono anche per essere infrante verrebbe da dire. I canoni possono essere sovvertiti, in maniera anche civile, senza ricorrere alla violenza o a forme di protesta estreme. Alla violenza non si deve rispondere per forza con la collera e con la rabbia. Non si deve fuggire dai problemi, ma affrontarli per risolverli. Sicuramente di “Trois fois Manon” è encomiabile la specificità del linguaggio adottato, che denota una profonda conoscenza e consapevolezza dell’adolescenza da parte del regista. E poi, soprattutto, l’interpretazione straordinaria delle giovani attrici, a partire da Alba Gaïa Bellugi, che recita la parte di Manon. Significative a proposito le parole di Jean-Xavier Lestrade sull’adolescenza: “sono sempre molto toccato da questa problematica. Di fronte ai suoi moti di collera, di violenza, che ho visto coi miei occhi, ho tentato di dare una risposta come potevo. Di fronte ad essi, infatti, si può essere colpiti dallo smarrimento ed essere tentati dal rifiuto e dal rigetto”. E la realtà è che non c’è una risposta valida sempre, non occorre necessariamente per forza trovare una spiegazione ed una definizione a tutto, ad ogni stato d’animo o ad ogni evento che lo ha provocato. Occorre individuare quale è la risposta a ciò che ci accade adatta a ciascuno di noi, reagendo senza essere remissivi, passivi. E, soprattutto, con la volontà di capire quello che è ciò che fa per noi. E quello che sembra essere sbagliato di Monsieur Gauvert è voler adottare uno schema unico, sempre, senza cercare di capire fino in fondo quello che tormenta ed agita ognuna delle adolescenti del centro, che ha la sua storia diversa (ma in fondo uguale) alle altre. Più che la storia di Manon, del suo cambiamento, della sua “guarigione” e liberazione, è il racconto di un confronto di una differenza di metodi di approccio e di affrontare problemi poi universali. Il maggiore e più grave limite sembra proprio quello di etichettare e di considerare malate queste giovani che soffrono, quasi a quantificare e catalogare il loro dolore, premiando o penalizzando con punti o meno in base alla loro capacità di reprimerlo; senza aiutarle a superarlo. E dimenticando che, poi, ognuno di noi è malato e sano allo stesso modo. È la storia, infine, della società contemporanea, una vicenda moderna dei tempi odierni e degli adolescenti di oggi. Non a caso, e questo ne rende ancora superiore l’importanza di una tale miniserie che potrebbe essere tranquillamente equiparata ad un documentario, una relazione del Parlamento ne ricorda l’attualità. Da essa risulta che un adolescente su quattro (23, 46%), tra i 15 e i 19 anni, ha fumato cannabis, uno o più nell’ultimo anno. Ed i casi di suicidio sono in aumento, a causa di bullismo o di problemi di auto-accettazione a causa del proprio orientamento sessuale. L’ultimo e più recente caso è quello di un 15enne, che a Bergamo si è gettato dalla finestra. È l’esclusione, l’isolamento, la denigrazione ad uccidere ed annientare queste personalità fragili. E recluderle in centri considerati quasi invalicabili, evitandoli o valicandoli comportandosi conformemente a quello che sono le regole considerate giuste, al politically correct potremmo dire, in base all’etica e meno alla morale, non fa che peggiorare la situazione. Giovani ed adulti non sono poi molti diversi, anche se non riescono a comunicare tra di loro; spesso sono i primi che possono insegnare ai secondi. Così come una favola può essere più pregna di significato di un libro di grammatica. Anche se si scrive in maniera meno corretta linguisticamente, non vuol dire che non si abbia qualcosa di importante da dire. L’attenzione puntata tutto sulle regole (grammaticali come del regolamento interno al centro), è limitante e limitativa: più saranno costrittive, più si sarà tentati di ribellarvisi. In fin dei conti per vivere in società ne occorrerebbe solamente una, che sarebbe più che sufficiente a garantire l’ordine civile: il rispetto reciproco e, con esso, il sapersi ascoltare l’un con l’altro. Come quando si legge una favola ci si deve chiedere per comprendere il senso: che cosa mi stanno dicendo quel personaggio e l’autore? Se non si sa ascoltare non si saprà dare neppure la risposta giusta al bisogno dell’altro: la richiesta d’aiuto di queste ragazze per superare la loro sofferenza e il loro dolore, attraverso gesti violenti che attirino l’attenzione su di sé. Imparando ad andare oltre le apparenze ed a non essere superficiali giudicando e basta, cercando sempre di dare solamente un voto, che non è altro che un semplice numero; ma cercando di capire. La scenografia, le musiche, i dialoghi, i monologhi, l’abbigliamento, il tono della voce, tutto contribuisce a facilitare la comprensione di quello che sembra il vero messaggio del regista: “più sono fragile, più sono forte”. Ovvero non bisogna avere timore di dimostrare le proprie debolezze e paure, ma lottare per superarle, per giungere all’autorealizzazione e all’auto-accettazione.
di Barbara Conti