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Roma Fiction Fest 2014: “Tyrant” di Howard Gordon

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Roma Fiction Fest 2014: “Tyrant” di Howard Gordon

Roma Fiction Fest 2014 -TurantLa storia di una tirannia che disumanizza ogni rapporto sociale, un’ascesa al potere indiscriminata.

Dopo la strage che ha sconvolto la Siria (e non solo), arriva all’ottava edizione del Roma Fiction Fest “Tyrant” di Howard Gordon. È la storia cruda e cruenta (consigliato solamente a chi ha lo stomaco forte) di una guerra civile intestina e fratricida, che devasta un paese ideale chiamato Ma’an. E qui risiede una delle difficoltà incontrate dal regista, come ha spiegato Gordon stesso nella master class (la parte sicuramente più interessante del RFF) a cui è intervenuto: scegliere dove ambientare questa storia di devastazione, in cui ogni principio morale ed umano viene annientato da una lotta per il potere o per la sopravvivenza verrebbe da dire. Sembra di sentire le parole di Kevin Spacey (nei panni di uno spietato Frank Underwood), quando dice in “House of cards” che nella politica “o cacci o sei cacciato”. Ovvero, o sei disposto anche ad uccidere per salvarti la vita o verrai eliminato. Ed infatti nel titolo c’è già l’argomento principale intorno a cui ruota tutto: la tirannia. “Tyrant” significa tiranno, non a caso; ma tutto sta ad individuare chi sia il tiranno. Già, non è così facile, poiché, ha voluto evidenziare più volte il regista Gordon, nei suoi film i buoni diventano e sono i cattivi e viceversa. In questa vicenda di tradimenti, tra traditi e traditori, i ruoli si invertono e fino all’ultimo non si sa chi sia la vittima chi il colpevole. Sicuramente l’intrigo con cui è strutturata la sceneggiatura è la parte più convincente. La buona notizia, poi, è che Gordon è già al lavoro ad un altro prodotto, come ha annunciato egli stesso. Ma in questa guerra ingiusta, viene descritta la povertà e la devastazione di una terra in cui regnano solamente violenza, odio, terrore. E se viene sparso molto sangue, in realtà quello che non è rispettato sono proprio i legami di sangue. Infatti nella lotta per l’ascesa al potere il conflitto principale sembra quello tra due fratelli: Jamal e Bassam. Apparentemente il primo è il cattivo e il buono è il secondo, ma non mancheranno colpi di scena sensazionali. Tra i rumori devastanti delle armi di questa guerra senza, in fondo, vincitori né vinti, in cui tutti si esce perdenti, poiché la democrazia, la dignità e il rispetto sono andati perduti, centrale è un regolamento dei conti. Soprattutto col passato. Per quanto se ne cerchi di scappare, arriva sempre il momento in cui lo si deve affrontare in maniera definitiva. Fuggito dal suo paese per trasferirsi in America con la moglie e i figli, Bassam è un chirurgo che non è mai più voluto tornare nella sua terra. Viene richiamato nel suo paese d’origine dal matrimonio del nipote. Il resto della sua famiglia è contento di conoscere lo stato da cui proviene, mentre lui sembra inquietato dall’idea. Per quale motivo? Perché è spaventato? Perché è irritato? Da lui non proviene nessuna spiegazione. La moglie insiste che qualcuno dovrà pur avere il coraggio di affrontare i sensi di colpa. In realtà per chi non ha vissuto è difficile capire quello che li attenderà. Un incubo da cui ne usciranno vivi? Di fronte all’orrore per tutta la violenza e la sofferenza che vi troveranno, che ancora sveglia e fa sobbalzare di notte Bassam, chi viene da fuori non riesce a capire le regole che dominano in questa terra. La moglie ed i figli di Bassam si guardano intorno frastornati, non sapendo in che maniera sia più giusto comportarsi. Qui tutto è cambiato, nulla è più né sarà come prima. Neppure per chi è andato via e tornato è lo stesso. La guerra è come un destino a cui non si può sfuggire; scappare non servirà, ti perseguiterà con tutta la sua follia. E sicuramente, come ha voluto ben evidenziare Gordon, il problema principale è stato trattare il personaggio di Bassam, che si vuole rifiutare di prendere parte al matrimonio del nipote. O meglio di tornare in una terra dove regna la legge del taglione, dove la diplomazia non è altro che rispondere con un ricatto ad una minaccia. Si domina con l’intimidazione e con la violenza. L’assenza di speranza e fiducia, in questa parte del mondo in cui si è persa ogni traccia di democrazia e di rispetto per il potere, hanno condotto a un desiderio di libertà, che sarebbe legittimo, ma che equivale a una volontà di un potere smodato, di riconoscersi arbitrariamente la possibilità di agire in maniera assolutamente incontrollata, senza rendere conto a nessuno e senza nessuna regolamentazione. L’unica vera regola che sembra regnare sovrana è la follia; la follia omicida per la sopravvivenza. La stessa follia che, o conduce alla pazzia o a commettere crimini, sicuramente alla disperazione. Disperazione che porta ad atti estremi quale quelli dei kamikaze. Anche in “Tyrant” si vede una donna che cerca di uccidere il violento Jamal, colui che sembra il più malvagio della sua famiglia e dei due fratelli, rischiando di morire in un incidente d’auto guidata da quest’ultimo. Di certo non si può impedire che venga compiuta una scelta: non c’è posto per due, per entrambi i fratelli, a vincere deve essere solamente uno; infatti il titolo parla di “Tyrant” al singolare, non “Tyrants” al plurale. Al di là di chi sia, sembra che si sia messi di fronte alla consapevolezza che, sia che si vinca che si perda, è sempre una guerra ingiusta, in cui c’è solamente morte e distruzione, in cui la fanno da padrona meccanismi irrazionali, illogici e privi di ogni principio di equità sociale. Non resta che prendere coscienza ed atto, come dice lo stesso Bassam, che: “Era meglio non venire”. Non se ne può uscire vivi perché, se anche si salva la pelle, di certo si morirà dentro: quello che è accaduto allo stesso Bassam, fosse altro per il tormento per la sofferenza che si è vista. È lo stesso Bassam a tentare di spiegarlo alla moglie, prima di partire, esclamando: “sempre che ne usciremo vivi”. Già, si può sopravvivere alla tirannia?

di Barabara Conti