Prodotto per SVT, sullo sfondo il paesaggio svedese per l’ambientazione sull’isola di Sunnanö
E per inaugurare la sezione europea al Roma Fiction Fest si è scelta una produzione svedese, per SVT: “Thicker than water”, dall’inglese letteralmente “più denso dell’acqua”. Ovvero il sangue. Infatti si avvicina molto al noir. Il primo episodio è stato visto da circa un milione di telespettatori, ma è sembrato di rivivere il momento in cui fu presentato, lo scorso anno, “L’isola dell’angelo caduto” di Carlo Lucarelli al Festival Internazionale del Film di Roma: ha lasciato tutti molto interdetti. Francamente un intreccio che non regge. La trama è semplice, ma non scorre. Il ritmo troppo lento appesantisce l’atmosfera di tensione che crea. Neanche la location dell’isola svedese di Sunnanӧ riesce a compensare quest’aura di grigiore che aleggia, quasi di angoscia. Anche nei volti dei personaggi non c’è intensità, anche i loro animi sembrano raffreddati dal vento che soffia gelido sull’acqua increspandola. Il senso di mistero che pervade tutta la storia non è sufficiente a tenere desta l’attenzione del pubblico ed a catturane l’interesse. Di giallo quasi poliziesco, che ne farebbe un racconto di un’inchiesta alla scoperta di verità celate, da scovare per un sorprendente finale stupefacente, neppure l’ombra. La storia è semplice e la trama si regge su pochi elementi, su limitati indizi, talmente poco chiari da confondere e quasi imbrigliare ancora di più la situazione. Una madre richiama i tre figli a casa: Jonna, Lasse e Oscar Waldemar. I tre si rincontreranno dopo molto tempo e dopo aver perso le tracce l’uno dell’altro. Ognuno porterà la propria storia. Li accomuna, però, il fatto di non riuscire a capire il motivo per cui la madre abbia scritto loro e li abbia “richiamati” così all’improvviso e con urgenza. A ciascuno di loro la madre impartisce una lezione, dà un suggerimento, richiede di seguire un consiglio. Ad Oscar dice che “deve perdonare”; a Lasse che “deve prendersi cura di loro” (non specificando di chi si tratti); a Jonna, l’unica donna dei tre, che “deve tornare a vivere qui”. La figlia protesta perché si è trasferita all’estero per fare l’attrice e si è legata sentimentalmente ad un regista. Tutti le dicono che è in gamba e crede che, col fatto che la madre non recita più, voglia che anche la figlia smetta di farlo. La madre le risponde che “io non sono te”. “Che vorrà dire?”, si interroga interdetta Jonna.
In realtà questi rebus non bastano a tenere in piedi un giallo o a farne un racconto di formazione e di introspezione. A tavola, riuniti, parlano molto di un padre-padrone. Sarebbe dunque la storia di una donna che vuole riunire la famiglia per cancellare l’ombra di un passato losco, incombente, inquietante ed opprimente quanto il vento freddo sull’acqua. Ma ogni tentativo è vano poiché chi siamo stati fa parte di coloro che siamo diventati e neppure il suicidio della donna servirà a cancellare la traccia di quello che è stato. Se l’acqua di solito lava via tutto, serve a purificare ed è simbolo di limpidezza, e quindi anche di chiarezza, qui viene meno proprio il suo candore, sporcato ed inquinato con il e dal sangue della donna. Pesante lo vediamo andare a fondo con il corpo della donna, che si toglie la vita con un colpo di pistola. Sono gli attori Joel Spira, Bjӧrn Bengtsson, Aliette Opheim ad interpretare i tre fratelli, sempre in litigio tra loro e mai franchi fino in fondo l’un con l’altro, quasi si trattasse di una convivenza temporanea pacifica, ma obbligata, un rapporto estremamente formale più che confidenziale che hanno reciprocamente. Di tolleranza e di sopportazione, un legame forzato più che di sangue, verrebbe da dire per rimanere in tema. Quel sangue che, infatti, viene disperso nelle acque. Quasi che loro avessero già cancellato dentro di sé il loro passato, lo avessero almeno in parte rimosso, o lo avessero rielaborato per diventare una persona nuova, ricostruirsi un’altra vita, andando via. Mentre per chi è restato, come la madre, il ricordo di quel passato è significato una condanna a morte appunto. “Più denso dell’acqua” è davvero denso, ricco e pieno di elementi inutili, di tante parole, ma di pochi fatti. Poco o nulla accade, se non il suicidio della donna. E tutto sembra rimanere perennemente immobile, senza cambiamento, quasi a sancire l’inutilità dell’ultimo tentativo vano (forse di riscatto e di liberazione) della donna. Un senso di colpa, mai palesato dalla madre nei confronti dei figli? Un senso di insoddisfazione e di mancata realizzazione? Non lo sapremo mai. Quasi fosse l’ultimo segreto nascosto che la donna ha portato con sé suicidandosi. L’ennesimo mistero irrisolto di una donna forse troppo sola, quasi incompresa, di certo non molto sostenuta: né dal marito, né dai figli, né da nessun altro. La vediamo venir picchiata da un’altra donna per averle detto: “ti do la possibilità di dire ciò che volevi dire”. L’ultimo indovinello dove forse risiede il tassello decisivo per risolvere il rebus, l’anello e il pezzo mancanti per completare il puzzle. Ed è forse il non detto, quello che ci si è tenuti dentro che è davvero “più pesante dell’acqua”, e ciò che ha ucciso la donna portandola al suicidio. Una decisione estrema dopo che aver perso ogni speranza e fiducia, almeno di poter ricostruire il rapporto coi figli e riaverli vicini a sé, riportandoli tutti a casa.
di Barbara Conti