Un genere rinnovato e rampante, anche in Italia, dove arriva nel 2015 la fiction ideata da Stefano Accorsi, 1992, che già promette scandalo
1992. L’anno che ha decretato la fine della vecchia Repubblica e l’inizio di nuovi imperi. Un gruppo affiatato di sceneggiatori supportati da Sky (la rete che ha dominato, anzi occupato questo Fiction Fest) e capeggiato dall’autore e producer di successo (v. la serie Boris) Lorenzo Mieli. Cresce l’attesa per 1992, la serie tv nata da un’idea di Stefano Accorsi, anche tra gli interpreti principali, che alla satira o al grottesco, per la prima volta preferisce il dramma sorrentiniano per il racconto della politica italiana contemporanea.
Presentata il anteprima mondiale al Fiction Fest, 1992 si fa trasportare da vicende di privati cittadini attraverso i quali ritrae gli attori celeberrimi (molti ancora sull’onda o naufragati nelle secche mediatiche, ma sempre “presenti”) dell’anno che ha catapultato un’Italia intimamente corrotta e apparenteente ridestata, dritta nei ’90, tra stragi di Stato, processi epocali, industriali pronti alla discesa in campo, tv commerciali albeggianti, veline e mandanti, prostituzioni e svendite, altre modernizzazioni e stessi baratri. Come conquisterà il pubblico una serie che narra il già noto, tra ricostruzione ufficiale e scandali dietro le quinte? Smascheramento o catarsi? Critica o autoanalisi paradossale?
1992 entrerà nel bene o nel male nel fiorente filone del nuovo political drama, discusso ieri nel pomeriggio appositamente dedicato al Roma Fiction Fest. Tra gli ospiti, oltre Lorenzo Mieli, anche l’autore e produttore Howard Gordon di Homeland, serie spionistica tipicamente incentrata sulla guerra al “terrore”, con Clare Danes, arrivata alla quarta stagione con notevoli consensi dal pubblico. Che sia una fine, intricata relazione di rimandi all’attualità, un gioco mentale ed emotivo di pedine, un torbido scavo nella dimensione privata della cosa pubblica o un roboante affresco di ardite e controverse politiche estere, il political drama racconta oggi le “grandi manovre”. Ne cerca le viscere e le stuzzica, mostrando più o meno direttamente i rapporti tra media, politica e società, e suoi mutamenti.
Shakespeariano e freudiano insieme, figlio di McLuhan e di Pirandello, di Lincoln e di Pollack, il political drama, padroneggato dai creativi (gli sceneggiatori, gli “showrunner”) negli USA e forse acerbo in Europa, dove ancora si ibrida con il giallo e con scenari futuribili, vive del presente, lo divora e ce lo fornisce in pasto. Senza condimenti aggiunti.
di Sarah Panatta