La storia di un rapporto ritrovato tra un padre e un figlio, grazie alla forza esplosiva della maschera di Arlecchino. Dall’11 giugno al cinema. Con Lunetta Savino e Roberto Herlitzka
Opera prima di Giorgio Pasotti e di Matteo Bini, “Io, Arlecchino” (nelle sale dall’11 giugno) è una storia che farà molto riflettere su diverse tematiche. Al centro c’è la riscoperta del rapporto di un figlio col padre, il ritrovamento della propria identità e libertà, la rivelazione che quella di Arlecchino è molto più di una semplice maschera, dello svelarsi di una verità di cui occorre prendere consapevolezza: l’importanza del teatro e della commedia dell’arte, che non sono morti, ma più vivi che mai se si è disposti a coltivarli con passione, dedizione e sacrificio. E soprattutto la riscoperta di rapporti personali veri, genuini ed autentici, al di là della convenienza. In questo il sottotitolo, “le ali e le radici: un padre e un figlio”, è emblematico. La prima parte non descrive solamente il legame che unisce un padre a un figlio, ma è anche una raffigurazione di quello che può essere il teatro, inteso anche volta come palcoscenico della vita. Il teatro, infatti, è ancorato alla tradizione ed alla realtà, ma permette di trovare la libertà d’espressione più genuina, essendo in grado di tirare fuori l’intimo e l’umano racchiuso dentro sé, per se stessi e non tanto per l’altro, anche se finalizzato per una rappresentazione su di un palco per il pubblico. Sul palco è come se si fosse soli, non come la spettacolarizzazione che avviene in tv dove forse la presenza delle telecamere è estraniante ed anche l’uso delle luci è più esagerato, “davvero impressionante” come dice Paolo (alias Giorgio Pasotti). Sul palco si è e si può essere se stessi. Ma nessuno vuole demonizzare un certo tipo di TV, ci tiene a precisare Matteo Bini: “C’è tanta televisione che io amo. E poi anche il personaggio di Mauro (alias Massimo Molea, nei panni del produttore televisivo per cui lavora Paolo, conduttore di uno show) è molto caricaturato e fa parte di quelli della Commedia dell’Arte”. È poi l’ideatrice del soggetto Elisabetta Sola ad aggiungere: “La tv è addirittura entrata a far parte della produzione e le situazioni sono simboliche e la storia ha una dimensione favolistica. Si voleva piuttosto demonizzare certi tipi di rapporti umani, più che di TV, un po’ stereotipati in cui ogni persona viene circoscritta in categorie caratteriali ben definite e statiche, fisse: il buono è buono, il cattivo è cattivo, il profondo è profondo. E rimangono sempre tali. Volevamo fare un lavoro culturale, comunicandolo con un linguaggio più universale e moderno”. E allora, oltre a notare “Ilcoraggio di fare un film del genere con un tale finale; probabilmente il coraggio inconsapevole e incosciente delle opere prime e dei registi emergenti”, come vuole sottolineare Giorgio Pasotti, viene naturale chiedersi: perché proprio la maschera di Arlecchino? L’attore di Bergamo (originario perciò dei posti che fanno da cornice alla storia e dove è stato girato il film ndr) si è detto affascinato dalla Commedia dell’Arte e da Arlecchino “Ancora molto attuale nel tempo. Amo la sua anarchia, la sua libertà e il fatto che gli sia concesso tutto. Esprime liberamente ciò che pensa. Hanno cercato sempre di incatenarlo e di limitare il suo potere. Nessuno c’è mai riuscito. Trasmettere la Commedia dell’Arte intera è un dovere, un obbligo morale per noi attori, che ci responsabilizza molto. Recuperare questo patrimonio storico e culturale tutto nostrano ci arricchisce anche in questa fase un po’ particolare del cinema. Il fatto che Arlecchino non fosse mai stato portato al cinema, sullo schermo, strideva col fatto che la Commedia dell’Arte ha qualcosa di universalmente comprensibile. Il problema era soltanto contestualizzare questo personaggio”. E c’è riuscito, confessa, grazie al contributo prezioso di Matteo Bini che ha portato l’idea della storia di fondo del rapporto tra un padre e un figlio. Per il resto la potenza esplosiva del teatro ha fatto il resto. Se poi si affida il ruolo del padre (Giovanni) a un attore del calibro di Roberto Herlitzka, si può scommettere sul successo dell’opera. L’interpretazione di Herlitzka, infatti, è una di quelle che lasciano il segno, tanto è stata intensa e perfettamente calzante al ruolo. Mimica facciale, tono di voce, sguardi, timbrica sia nei monologhi, che nei dialoghi che nel silenzio di scene che vanno vissute in una dimensione più intima sono assolutamente efficaci. In questo il supporto degli effetti scenici usati è essenziale. Se poi si aggiunge anche la partecipazione straordinaria di Lunetta Savino, il cast è completo per fare faville (ma ci sono anche: Valeria Bilello e Lavinia Longhi, che interpretano rispettivamente Cristina e Francesca, le due donne amate da Poalo). La stessa attrice (sempre molto sensibile, nei panni di Maria, la vediamo commuoversi spesso in modo sincero) ha raccontato l’esperienza del set: “Quello del teatro è un mondo sconosciuto spesso pieno di sentimenti fortissimi. C’è un lavoro forte sul corpo da fare più che sulla costruzione del personaggio. Per me avere l’occasione di fare Pantalone è stato appassionante. Anche perché, da pugliese, ho dovuto lavorare molto sull’inflessione dialettale veneta. È stata molto piacevole l’idea di creare un gruppo di attori di teatro amatoriali, ma molto appassionati”.
Certo a farla da padrona, però, è sempre la forza magnetica della maschera di Arlecchino. Probabilmente il motivo è la spiegazione fornita da Matteo Bini: “Arlecchino è uno, nessuno e centomila; è energia pura; è universale. C’è un Arlecchino in ognuno di noi, mentre la conoscenza di questo personaggio della commedia d’arte è ancora abbastanza superficiale”. Ma questo film non solo è riuscito a farlo capire e conoscere meglio, ma è andato ben oltre. Accostandolo al tema, che comunque rimane centrale, della storia del rapporto riscoperto tra un padre e un figlio in crisi d’identità, che ritrova in questa maschera; questo è un aspetto molto interessante poiché permette, ha spiegato Bini, di “Trovare un’identità universale e non più solamente individuale, ma anche di raccontare una storia che dal locale (delle zone di Bergamo e Roma dove è ambientata) diventa anch’essa universale”. Il regista ha voluto poi svelare il segreto che ha fatto il successo del film e che ne permetterà sicuramente l’apprezzamento futuro e condiviso in maniera universale del pubblico: il fatto di far ridere dove si sarebbe voluto piangere e di aver commosso nei momenti anche più leggeri della vicenda. Il rispetto profondo per la storia e il personaggio, la delicatezza, l’umiltà e la cura maniacale con cui si è girato hanno fornito una marcia in più notevole, come ha precisato Giorgio Pasotti. Quest’ultimo ha voluto evidenziare che la sceneggiatura è stata scritta e cucita sul cast e sugli attori che ne avrebbero fatto parte e che avrebbero interpretato i vari protagonisti. Scelta insolita, inusuale e coraggiosa anch’essa, come quella del soggetto. La carta vincente è stata anche saper ascoltare la richiesta del pubblico più esigente, in cerca di un cinema diverso, più impegnato, più sociale potremmo dire, che sappia raccontare storie vere. “Arlecchino –aggiunge Elisabetta Sola– con il suo vestito rimediato è simbolo dell’uomo contemporaneo, alla ricerca di un’identità che spesso si deve ‘arrangiare’, trasformando creativamente le poche risorse che ha in qualcosa di nuovo e di piacevolmente rappresentativo del sé. Arlecchino è una favola attuale in cui tradizione, storia e presente si mescolano per ricordare che forse, anche nei tempi di crisi, la propria identità storica e culturale, il ritorno alle proprie origini e la capacità di scommetter e rischiare sono gli antidoti per non soccombere e per aver fiducia nel futuro”.
Due sono i momenti alti del film: il finale e la scena di addio di Giovanni (Roberto Herlitzka), padre di Paolo Milesi (Giorgio Pasotti), che scopre di essere gravemente malato di cancro e decide di trascorrere l’ultimo periodo della sua vita sul palco di un teatro a recitare Arlecchino, avendo vissuto tutta la sua esistenza con lo stesso spirito di tale maschera. Lo vediamo, nel momento in cui in silenzio si rappresenta la sua morte, sorridere, sotto la pioggia, alzare il cappello con una mano e con l’altra salutare ed andarsene con un ultimo inchino e via scomparire pian piano. Ne rimane assolutamente il suo sorriso. E il figlio prende coscienza di dover fare i conti col suo passato, sfogliando l’album di famiglia. E per lui è come guardarsi allo specchio e capire chi è: è lui il nuovo Arlecchino. E parte in una corsa forsennata verso la libertà e il futuro. Per lui si aprono nuovi orizzonti e una nuova vita, con una nuova morale a fare da cornice. Quella del finale, da standing ovation, che è la trovata più originale. E qui si arrivano a ricongiungere i due universi della tv e del teatro, contrapposti e agli antipodi per tutto il film.
Il nuovo nome dato alla trasmissione di Paolo è emblematica: “Stasera parlo io”, mentre prima era (sempre simbolicamente) “Dico ciò che penso”. Finalmente arriva appunto a dire ciò che pensa, facendo chiarezza dentro sé (nuova luce, come quelle da discoteca che illuminano la scena nel nuovo studio del nuovo programma). Ed enfatizziamo non a caso l’aggettivo nuovo. La conclusione di questo “nuovo” è appunto nelle parole di Paolo: “Per ogni farsa la sua arringa. Scegliete voi il finale: se essere liberi o farvi addomesticare. Aprite bene gli occhi perché molti sanno vedere ma pochi guardare veramente. Non applaudite se non c’è niente che ne valga la pena. E non piangete se non c’è nulla che vi arreca dolore”. È detto in tv, ma è il migliore dei monologhi di teatro mai scritti. Il teatro approda in tv e la tv viene teatralizzata. Sintesi perfetta di due poli opposti che in realtà non lo sono. “Se venisse realmente realizzato un programma del genere sicuramente farebbe il boom di ascolti e alzerebbe lo share; poi il telefono smetterebbe di suonare”, scherza Pasotti in conferenza stampa. “Rischierebbe persino di diventare un nuovo filone televisivo, dato che al pubblico piacerebbe. Ma tanto non succederà”, constata con sano cinismo obiettivo e realismo Herlitzka.
Ma l’obiettivo è mostrare che dietro ogni cuore duro, anche dietro lo spietato squallore apparente della tv, dietro il disinteresse se non per il denaro, gli ascolti e il guadagno economico, il successo e la fama del mondo dello spettacolo, c’è sempre un’anima calda e viva che resiste latente, ma florida: quella di Arlecchino, del teatro, dell’animo umano più vero e più sensibile. E bisogna cercare di andare oltre ogni conformismo di comodo e di interesse mediatico, imprenditoriale e spregiudicato: in cui contano le raccomandazioni e non le capacità. Ed è per questo che, per ironia della sorte, Giovanni teme più la tv (“sono analogico è grave?” afferma quando gli comunicano che non ha la linea digitale del televisore) o le medicine (“un duro lavoro organizzarle”), che il teatro (con l’entusiasmo e la passione dei ragazzi che lavorano con lui) che per lui è vita. “Sul palco prende forza, non sembra neppure malato. Sarà la forza della maschera di Arlecchino” si dice. Convinto che bisogna sempre credere che arriverà la propria occasione, nonostante conti più quanti biglietti si riesce a vendere che lo spettacolo in sé. La sua capacità più grande è saper sdrammatizzare ogni momento, anche il più duro. E la sua morte, il suo funerale è anche metaforicamente la tomba della Commedia dell’Arte. Ma occorre ricordare che “l’arte è sacrificio” e per tale va apprezzata, approfondita, studiata nel dettaglio e scandagliata, come riflette Maria (Lunetta Savino). E questo cozza con certe motivazioni squallide che vengono fornite per cancellare uno spettacolo teatrale o per non portarlo in teatri importanti e dargli visibilità, come ha spiegato Eugenio De’ Giorgi (nei panni di Dario, uno dei ragazzi del gruppo di attori amatoriali di Giovanni) a Matteo Bini. Su questo occorre fermarsi molto a pensare.
di Barbara Conti