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Il poliziottesco Cinque inciampa nei cliché del genere

5-Cinque-locandina-filmVolutamente creato per essere un fumettone con cui salutare e far rivivere l’estetica degli anni ’70, Cinque si perde in una sceneggiatura carente

 

Francesco Maria Dominedò dirige Cinque, un film low budget fortemente orientato alla cura estetica delle immagini e del montaggio e poco attento ai dettagli di scrittura. L’incipit improntato sulla simbologia del numero 5 apre una finestra sui protagonisti, una band nata ai tempi della prima esperienza carceraria e formata da cinque componenti (Matteo Branciamore, Stefano Sammarco, Christian Marazziti, Alessandro Tersigni, Alessandro Borghi) lasciati emergere come caratteri stereotipati e non come veri e propri personaggi.

Nelle periferie di Roma est i cinque si organizzano per compiere un colpo da veri professionisti, ritrovandosi a gestire un affare fuori dalla loro portata. Attraverso lo sguardo di Gianni (Stefano Sammarco), punto di riferimento del gruppo, seguiamo le vicende di un quintetto dove tutto funziona secondo codici già visti e niente stimola il nostro stupore. Fino al rapimento organizzato per rubare una cospicua somma di denaro, la storia segue una linea principale coerente e accettabile che via via si perde in un sottobosco di intrecci ingarbugliati e blandamente accennati. L’opera di Dominedò, un omaggio dichiarato al genere poliziottesco degli anni ’70, risente dei limiti temporali e di budget che ne hanno caratterizzato la produzione e si presenta come una costruzione dove si vorrebbe dire tanto e si finisce solo col generare confusione. Agli indugi insistenti della macchina da presa sulle donne dei night e l’assunzione di droghe – raffigurazioni superficiali dell’ambiente a cui la storia appartiene – si oppone una sbrigativa trattazione dei punti di svolta che riguardano i protagonisti e che ne determinano scelte e azioni. Cinque sembra puntare tutto sull’estetica volutamente vintage e ignorare con una disarmante disinvoltura lo smarrimento disastroso di una sceneggiatura compatta solo nella prima parte del film.

Tra zoomate, movimenti di macchina arditi e un montaggio a tempo con la storia, la prima parte del film (fino al mistero della valigetta) si tiene in piedi con un ritmo calibrato e calzante che si disperde insieme alla trama quando la mafia russa fa il suo ingresso in scena, scompagina la credibilità dell’ambientazione locale e aumenta la complessità filmica fino a un livello insostenibile.

Creato per essere un fumettone con cui omaggiare il cinema poliziottesco inaugurato qualche decennio fa, Cinque finisce per inciampare proprio in quei cliché rispolverati e risolti in un’accozzaglia di espedienti poco convincenti.

 

di Francesca Vantaggiato