La malinconia del poeta di Recanati, genio ribelle che esplode nella fase finale di vita a Napoli
È uno dei film più quotati del momento. Se ne è molto parlato e molta curiosità ha destato. Si tratta de “Il giovane Favoloso”, per la regia di Mario Martone, una produzione Palomar-Rai Cinema. A più di un mese dall’uscita, il 16 ottobre scorso, ancora se ne discute. Forse anche per la scelta coraggiosa del regista di portare sullo schermo la vita di Giacomo Leopardi. Una decisione inconsueta, a partire dal titolo. “Il giovane favoloso” non sarebbe di certo l’appellativo più adatto per descrivere Leopardi, dedito ad uno “studio matto e forsennato”, quasi disperato ed ossessivo, che lo conduce ad una solitudine profonda, che lo invade e pervade di malinconia tangibile. Quasi che si potesse respirare, e che emerge da ogni suo singolo componimento, come il pensiero assillante della morte, della fine, della perdita, della rovina. Un film drammatico, biografico e storico al contempo, sicuramente realistico, nella riproduzione fedele ai fatti, senza stravolgerli, senza enfatizzare i toni, che non sono né puro encomio a piena difesa dell’autore né una sua denigrazione o condanna. Qui non si denuncia né il suo fallimento né si difende la sua superiorità artistica. In questa pellicola si rappresenta l’uomo Leopardi, tediato da un tormento esistenziale profondo di tipo pirandelliano, quasi fosse l’inetto di stampo novecentesco tormentato dal male del secolo: l’incomunicabilità. Soffre, afflitto da gravi problemi fisici: la deformità alle ossa e la quasi cecità su tutti. Oltre che da un malessere psicologico derivante dalla rassegnazione con cui guarda a un dramma esistenziale, sociale e civile che ritiene irreversibile, poiché quasi sconosciuto agli occhi dei più. Eppure, tale afflizione passiva non frena il moto di ribellione di questo vero e proprio genio ribelle, che emerge soprattutto nella fase finale di vita a Napoli. Qui appare il Leopardi che meglio rispecchia “il giovane favoloso”, nel senso di un autore dall’intelligenza acuta, di un acume che va oltre il limite dell’elogio nei salotti, che tra l’altro odia, che preferisce andare per strada tra la gente, per raccogliere, osservando, quella linfa vitale che mette nelle sue opere. E, verosimilmente, “giovane favoloso” lo si deve al suo estro letterario, alla sua intelligenza straordinaria: questo giovane è favoloso in quanto eccezionale per la vasta cultura che ha, per l’apprendimento meticoloso, facile ed approfondito in vari ambiti, di livello superiore alla norma. Non è favoloso in quanto divertente, ma in quanto brillante. E lo è soprattutto a Napoli. Sebbene sia d’avanguardia ed anticipi molte problematiche affrontate ed analizzate nel XX e XXI secolo, ancora attuali, e nonostante sia anche incompreso e non accettato, anzi respinto per questo, vediamo che non è del tutto solo o portato esclusivamente a rinchiudersi nella sua torre d’avorio. Al contrario di quanto si possa pensare, egli fu affiancato profondamente dai fratelli Carlo e Paolina, con cui ebbe un ottimo rapporto e da Antonio Ranieri, cui fu legatissimo e che adorò, e da altri intellettuali quali Pietro Giordani, che considerò l’unica persona che riuscisse a comprenderlo. Quindi non solo non fu isolato, ma neppure asociale o troppo solitario. Anzi con loro volle uscire fuori all’aperto e non rinchiudersi nelle mura della biblioteca. Andando per le strade, respirando l’aria, i profumi, gli odori della natura che fu sempre al centro delle sue opere. Tanto che uno dei momenti più toccanti del film è quando recita a Ranieri “Canto notturno di un pastore errante nell’Asia”.
La profondità della sua riflessione sull’esistenza e sulla condizione umana –di ispirazione sensista e materialista– ne fa anche un filosofo di notevole spessore. La sua superiorità fu di essere, contemporaneamente, poeta, filosofo, scrittore, filologo e glottologo italiano. La forza del film di Martone non è solo mostrarci tutto questo, ma farci vedere come egli, mentre soffriva per non essere accettato e riconosciuto, si faceva beffa dei vertici del mondo intellettuale, con invettive e attacchi che sono veri e propri pamphlet d’avanguardia. Con pochi tratti vuole fornire un quadro il più possibile completo, una panoramica vasta della vita di Leopardi. Senza dimenticare le opere ovviamente. Anzi per un racconto attraverso le opere che ha una doppia valenza. Non solo, con esse e con il film, si ridà vita a posti, luoghi ed ambienti (quali la biblioteca di Recanati stessa) rimasti immutati nel tempo, ma si mostra l’universalità del pensiero, della filosofia di Leopardi: tanto che non lo si vede morire, quasi che i suoi concetti e le sue dissertazioni rimanessero ancora in vita ed attuali. Si lascia la sensazione dell’eternità delle parole di Leopardi squarciando il confine tra cinema e teatro, tra finzione e realtà. Del resto Martone viene dal teatro e non è nuovo ad occuparsi di storie simili a quelle di Leopardi. Lo fece già nel 1992 con Morte di un matematico napoletano (con Toni Servillo), dove racconta la vita di Renato Caccioppoli, uno scienziato dotato e pieno di talento ma incline ad un tormento interiore cronico che lo porta ad un drammatico suicidio. Oppure con Una disperata vitalità (1999) con Laura Betti, un documentario che riporta alla luce alcune poesie di Pasolini. In “Il giovane favoloso” poi, c’è qualcosa anche di L’odore del sangue (2004), con Michele Placido e Fanny Ardant protagonisti di una tormentata storia d’amore passionale e torbida. Leopardi, infatti, soffrì molto anche per amore. Soprattutto a causa di Fanny Targioni Tozzetti, che cercò di allontanarlo da Ranieri di cui era innamorata. In questo, Elio Germano interpreta in maniera egregia il ruolo di Giacomo. Notevole la qualità della sua recitazione delle poesie. Non era di certo facile rendere lo stato d’animo tormentato di Leopardi, che si considerava infelicissimo, l’ultima ruota del carro, ma ribelle. Figura controversa che anche gli effetti scenici contribuiscono ad enfatizzare nella musicalità delle sue opere. Vuole fuggire da Recanati che gli sta stretta (“come un orso in gabbia che sbatte”), nonostante il film metta ben in mostra quanto la biblioteca del padre Monaldo sia “un beneficio immortale” per l’umanità, tanto che “la rivoluzione sarebbe se si moltiplicassero” questi luoghi. Il film si chiude con l’eruzione del Vesuvio, cui Leopardi assiste e da cui scaturisce “La ginestra”. E la sua produzione è come la ginestra in grado di rinascere dalle e tra le ceneri del vulcano. Una speranza di poter cogliere la bellezza, la profondità della natura se si è in grado di dubitare: “lo Zibaldone contiene il vero, che consiste nel dubitare; lo si può trovare dubitando: chi dubita sa”. Nulla toglie, però, l’amaro della consapevolezza del tempo perduto che non tornerà e della mediocrità dell’uomo, con “un abietto consumismo e un materialismo da combattere”, il vero male della società. Quanto di più moderno ed attuale vi possa essere.
di Barbara Conti