Molte le problematiche tipiche dell’adolescenza affrontate, forse in maniera un po’ troppo leggera.
Il regista Mark Monheim racconta l’adolescenza in “About a girl”. Nel cast ci sono: Jasna Fritzi Bauer, Heike Makatsch, Aurel Manthei, Simon Schwarz. Che cosa si può dire di una ragazza, di una quindicenne? Egli mette in scena tutti i suoi tormenti esistenziali tipici di quell’età, i conflitti interiori e col mondo, soprattutto con quello degli adulti, che spesso “sono estremamente imbarazzanti”. Un’adolescente come tante, come tutte le sue coetanee. Il titolo, infatti, parla di una ragazza, senza specificare il nome della protagonista: Charleen. Lei si sente incompresa, “strana”, differente dagli altri coetanei. Ed inizia così il suo “mal di vivere”, una crisi esistenziale appunto che la conduce al tentativo di suicidio. Non riesce a comunicare coi ragazzi della sua età, non trova più un motivo per andare avanti, una fonte di soddisfazione che gli dia l’entusiasmo e la gioia di vivere, che perde completamente. Salva per miracolo, la crescita per arrivare a comprendere il vero senso della vita sarà lunga e dura per lei. In questo percorso complesso non sarà sola e si tratterà di riscoprire i rapporti con i genitori (divorziati), perché forse, mentre ci si interroga di vita e di morte, e mentre ci si domanda se esista il Paradiso, “forse è proprio qui dove siamo da anni” le dice la madre: la sua casa, la sua famiglia appunto, anche il fratellino minore con cui litigava sempre. Tra la sua rabbia e il suo rancore, la prova più dura è resistere al dolore e alla sofferenza, alle prove che la vita le sottopone: su tutte la morte della nonna cui era molto legata, che le ripete spesso che “la vita è un dono e i regali non vanno mai buttati via”; “sì, ma si possono cambiare”, pensa Charleen. Ed è proprio il cambiamento che lei, inconsciamente, ricerca. E poi crescere significa anche confrontarsi col cambiamento del proprio corpo e con l’iniziare a conoscere l’amore. Ma in fondo morte e amore sono due facce opposte della stessa medaglia. Dovrà imparare l’arte di sapersi rapportare e relazionare con gli altri ragazzi. Da questo punto di vista lei sembra molto sensibile alle difficoltà altrui, anche se pare non le importi nulla di niente. E si fa paladina e promotrice della difesa di quella libertà d’espressione così importante per lei. In questo si dimostra anche molto coerente nel suo atteggiamento da ribelle: se si prende una decisione la si deve portare avanti sino in fondo; lei è una diretta e dice quello che pensa, le cose in faccia anche se fanno male. Eppure ciò le porta solamente isolamento, solitudine e distacco anche dalla sua migliore amica.
Il film si apre con Charleen che, da sola, si ripete tra sé la seguente frase: “capii che la vita non è il compleanno di un bambino”. La sua gioia di festeggiare, di divertirsi, di godersi la vita in modo leggero. Lei, invece, prende tutto sul serio, di petto come diremmo. Ed anche lo psicanalista da cui la spediscono, infatti, le consiglia di “alleggerire” un po’, di sdrammatizzare, di usare più ironia. Ed in questo, a suo avviso, la sincerità può aiutare. Ed allora Charleen si chiede: perché non si può continuare a fare finta che tutto vada bene, che lei non abbia niente, senza domande? Perché non ci si può evitare tutto lo stillicidio di scoprire le carte in tavola? Quasi a rimanere sospesi in quell’atmosfera idilliaca, un po’ irreale, di calma apparente, che c’è “tra il dormire e lo svegliarsi, in cui c’è un momento di magia in cui tutto è in ordine e senti che ci sei anche tu, ancora viva. Prima che la vita ti travolga in tutta la sua durezza”. Quasi a rimanere nel limbo dell’agio e dello spasso dell’adolescenza, piuttosto che entrare nella maturità dell’età adulta, in cui ci sono molte scelte difficili da compiere. In fondo non le sembra di chiedere molto: vuole solo essere lasciata in pace! Non è difficile da capire, pensa. Eppure tutti le stanno sul fiato sul collo, vogliono sapere, fanno domande a cui lei non vuole rispondere, mentre vorrebbe solamente chiudersi ed annullarsi ascoltando musica. Lei, infatti, è appassionata di Kurt Cobain. Oppure vorrebbe che cadesse uno scroscio di pioggia forte a lavare via tutti i momenti di tensione, di odio e di rabbia, di scontro, che lei odia appunto. Tutto questo la manda in collera, le toglie il sorriso e la fa ombrare in volto. E allora arriva a pensare che forse è meglio morire: “le persone morte sembrano tutte felici e soddisfatte”. E così fotografa animali morti. Viceversa lei vorrebbe distruggere tutto del mondo “marcio”, dedito solamente a giudicare e a cercare un essere interessante, più particolare, diverso per denigrarlo solamente perché “è divertente”. Ma, in fondo, un bullo non è che un altro adolescente in piena crisi di crescita, anch’egli ancora alla scoperta di se stesso. Ovviamente l’argomento psicoterapia è censurato. Nessuno deve sapere né affrontarlo. Lì incontrerà Linus, un ragazzo “strano” come lei. Affrontare questi argomenti, nonché la scoperta della sessualità da parte dei due giovani e dei loro coetanei, è stata una scelta coraggiosa da parte del regista, che l’ha voluta porre in maniera leggera. Il pubblico sembra aver apprezzato, ma il rischio di cadere nel “semplicistico” c’è. Una storia di adolescenti per adolescenti, trattata in maniera non troppo impegnata. Ed allora il mettere in scena questi personaggi non è legata al fatto stesso che potessero essere soggetti “divertenti”? Forse si è voluto attraversare, in meno di due ore, tutta l’adolescenza della protagonista, quando invece si sarebbe potuto scegliere di trattarne un episodio in particolare. Sull’esempio di “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano, senza riprendere il tono più melodrammatico e di introspezione psicologica. L’alleggerire e usare la comicità per trattare temi importanti non nuoce, ma il rischio di sminuire c’è. Di analisi psicologica dei personaggi c’è davvero poco. Sembra più un porre delle domande e dare delle risposte ovvie, che giovani in conflitto col mondo non ascolteranno mai, senza prima provarne le conseguenze sulla loro pelle. Forse puntare più sulle figure di questi due adolescenti sarebbe stato meglio. Qui, invece, lo psicoterapeuta è quasi ridicolizzato, così come gli adulti. Gli unici in grado di comunicare davvero sono loro due, ma si ritrovano spesso incapaci di proseguire, bloccati dalla paura dell’ignoto del mondo dei grandi. Invece particolarmente interessante era approfondire l’argomento bullismo e del disagio proprio di coloro ritenuti più fortunati perché più intelligenti, geni in grado di risolvere i problemi del mondo quasi, ma non i loro. Ovvero i plus-dotati come Linus, che sono quelli che dovranno lottare e faticare più degli altri invece, superare difficoltà maggiori, anche per andare oltre i pregiudizi della gente. Proprio il 18 ottobre scorso si è tenuto, si legge su “Metro” del 21 ottobre a pag. 12, un seminario promosso dall’IdO (Istituto di Ortofonologia), dal titolo: “Bambini plus-dotati. Una risorsa non un problema”. Mentre loro si sentono un peso, d’intralcio, sempre sconvenienti ed inutili. Hanno enormi problemi di adattamento e di inserimento sociale. In Italia sono circa 400mila e soffrono tantissimo a causa della mania eccessiva di perfezionismo di cui soffrono, per cui sono severissimi con se stessi: non accettano di non eseguire alla perfezione. Da qui ansia, stress, insoddisfazione, frustrazione di chi, come loro e come Charleen, “è come una Ferrari in un corpo di una cinquecento”, spiega l’esperta: la dott.ssa Maria Assunta Zanetti.
di Barbara Conti