Nuovo film per Hirokazu Kore-eda
“I wish” è l’ultimo film di Hirokazu Kore-eda presentato al Festival Internazionale del Film di Roma. Più di due ore in cui il regista ci racconta il Giappone attraverso gli occhi dei giovani protagonisti, dei bambini, ma soprattutto di due fratelli che vivono separati poiché i genitori sono divorziati. Sembrano quasi due gemelli che si completano; due personalità diverse complementari, uniti nonostante la distanza. Tanto che vorrebbero re-incontrarsi e far riavvicinare i loro genitori. I 128 minuti del film scorrono veloci, tra battute divertenti e salti nello spazio a mostrare simbolicamente anche lo stato dei due fanciulli, che si troveranno di fronte al bivio di dover scegliere quello che fare della loro vita. “I wish”, infatti, che in inglese significa “vorrei”, sono i desideri espressi dai protagonisti e dai loro amici. Per tutto il tempo stupisce soprattutto la maturità di questi bambini e non crediamo che sia tanto per denigrare la figura dei genitori o per esaltare quella dei giovani attori, quanto poiché corrisponda alla realtà. Del Giappone colpisce l’educazione rigida, ad esempio, raffigurata con pochi tratti salienti: bambini in divisa che puliscono il cortile della scuola. Simpaticamente, poi, veniamo introdotti al cibo giapponese con il sashimi di cavallo amato da Ruy, o dai dolcetti salutari karukan, rivisitati con lo zucchero semolato, in un Oriente che si apre sempre più all’Oriente; oppure la danza e la musica: il padre che vive col piccolo Ruy è musicista; l’arte giapponese; la preghiera con gli incensi. E poi non potevano mancare le moderne tecnologie: seppure i ragazzi non amino la scuola (troppo rigida forse), sanno ben districarsi con Internet ed altri strumenti tecnologici. Ed è a queste ultime due che ricorrono i bambini per esaudire i loro desideri. E presto dovranno dimostrare quello che sono disposti a fare, sia a sostenere di sacrifici che di rinunce, per esaudirli. Le insidie per raggiungere la méta sono molteplici, soprattutto nelle grandi città e megalopoli giapponesi. L’occasione che si presenta loro e che è un po’ il fattore scatenante è la creazione di un treno-proiettile, denominato Sakura, in grado di correre 250 km/h che si dice che, quando si incrocia con un altro treno, accada un miracolo. I due protagonisti non ci penseranno due volte ad organizzare un incontro lì nel posto che diventerà luogo dell’appuntamento col proprio destino. E così, se prima vedevamo i bambini stendere i panni, preparare la cartella e tutto il necessario per scuola, svegliare i genitori o ricordare i soldi per la retta mensile, da quel momento i loro sforzi saranno solamente concentrati ad attuare un piano e realizzare il progetto di assistere all’evento dell’anno o del secolo potremmo dire, dell’incrocio dei treni. Quest’ultimo, poi, metaforicamente, potrebbe essere l’intersecarsi delle vite dei due fratellini, le cui vite erano scorse solamente parallelamente, unite appunto esclusivamente dalla tecnologia (e-mail e telefono). Ne usciranno cambiati e, se prima litigavano per le briciole delle patatine, ora non più. Un’esperienza per capire ciò che davvero vogliono. E così, con scaltrezza, iniziano a vendere i giochi e i libri per accumulare la cifra necessaria a coprire i costi del viaggio. Per il passaggio dall’infanzia all’adolescenza: non buttano via solamente i giocattoli, ma c’è uno spostamento del loro asse di priorità, di valori preponderanti che sono cambiati. Una battuta che sorprende è quando Ruy dice al padre: “ricevi gli assegni familiari, puoi darmene la metà e la chitarra la compri il mese prossimo”. Sorprendente e stupefacente l’immediatezza, la spontaneità, la semplicità e la facilità con cui, con l’innocenza dei piccoli, anche un giovane apparentemente superficiale come Ruy, interessato solamente alle sue piante, che annaffia, individui subito ciò per cui vanno spesi i soldi. Importante il fattore economico all’epoca delle frodi bancarie e in cui “non si può vivere di soli sprechi”, come Ruy ricorda al padre. Anche ciò che sembrava impossibile non lo è se si è spinti dal cuore. Non mancano, poi, neppure i paesaggi tipici giapponesi, caratterizzati da enormi palazzine affiancate, per contrasto, da aree verdi e dalla presenza sullo sfondo, centrale, del vulcano. Con la cui polvere i giapponesi hanno imparato a convivere, sapendo ormai prevedere quanta ce ne sarà. Questo diventa metafora dell’esperienza adulta, del “mondo”, come viene chiamato nel film. E allora non resta che scoprire quello che trionferà tra famiglia e l’individualità di bambini orami inseriti nella società in cui sanno perfettamente districarsi. E soprattutto, cosa sceglieranno i due fratellini? Le cui vite sono unite da “un filo invisibile”, dice Ruy.
E così l’autore si interroga se ciò sia sufficiente a tener in piedi i legami affettivi, anche quelli di sangue. La distanza può incrinarli? Analisi effettuata anche tramite l’altro film del regista giapponese: “Like father like son”. Dunque centrali i rapporti affettivi e quelli familiari in particolare. Questo deriva dall’esperienza autobiografica di Hirokazu Kore-Eda della nascita della figlia. “Quando è nata –racconta- sono stato scosso da due emozioni contrastanti: la gioia di diventare padre e il dubbio di non essere un buon genitore. Mia moglie dal giorno dopo era diventata madre, mentre io non mi sentivo ancora un padre. In più, per lavoro, stavo fuori da casa molto tempo; ad esempio per ‘I wish’ sono stato fuori un mese. Quando sono tornato il rapporto era cambiato; prima di ripartire mia figlia mi disse ‘ci vediamo presto’. Allora ho capito che in un rapporto conta di più il tempo che si trascorre con le persone amate, anche più del legame di sangue. Altrimenti si può rischiare di perdere il sentimento d’affetto da parte dell’altro. Ed io ho avuto paura che non sarei neppure più stato un padre per mia figlia. Nel film non giudico né voglio dire ciò che è giusto e ciò che no. La figura del padre nei miei film è centrale poiché diventare padre mi ha fatto ricordare il rapporto bruttissimo che avevo col mio, scomparso da anni. MI sono interrogato sempre più spesso e mi sono chiesto e detto che forse mi amava. Per questo cerco di guardare il mondo attraverso gli occhi dei bambini, che mi permette di avere una prospettiva diversa”. Ne nascono legami autentici, che sembrano spontanei poiché il regista ripone massima fiducia negli attori, cercando di cogliere la spontaneità e l’immediatezza di attimi “naturali”. “Cerco, per così dire, di far creare loro così –ci speiga Hirokazu Kore-Eda
di Barbara Conti