La camera fissa di Alberto Fasulo compone un on the road oltre umano, sulle autostrade di vite divise, tra Giorgio Diritti e nuovo realismo mitteleuropeo
Ho lasciato casa mia per finire ad aspettare, in un budello di cemento e di gas di scarico. In una cabina scura, pareti di una geometria spiccia, ripetitiva e straniata. Branko e Maki sono compagni di viaggio, stesso turno, stesso camion, stessa solitudine condivisibile. La loro dimensione è una ferita, uno strappo. Sospensione nello spazio asfittico della responsabilità e del senso di colpa, verso una famiglia lontana che chiede una presenza difficilmente contrattabile.
Storia di relazioni affettive in presa diretta, assorbite giorno dopo giorno dalla realtà di tratte dilatate e interminabili, ostaggio di contratti schiavistici, di riposi ansiosi in area di sosta troppo piccole, di docce improvvisate, di pasti tiepidi cucinati e consumati ai bordi di camion carichi di maiali, mele, desideri cicatrizzati, follie inesplose.
Percorre il tracciato epidermico e paziente di Giorgio Diritti il primo lungometraggio di fiction di Alberto Fasulo, TIR, coproduzione italiana e mitteleuropea, in Concorso al festival. Un documentario girato per 3/4 con piani sequenza e camera fissa, dentro un tir che si muove su itinerari lineari, inesorabili, dunque paralizza(n)ti. Sono i protagonisti ad animare l’opera sin dalla prima inquadratura, nelle loro conversazioni telefoniche e nei battibecchi con i capi italiani che li spingono a superare o falsificare regole e diritti per svolgere un surplus lavorativo che logora e narcotizza.
Di Branko conosciamo il corpo e la voce roca, cortese, la moglie sola che vorrebbe la sua partecipazione in una routine domestica (la precarietà del lavoro, gli amici, la macchina che non funziona, il figlio che deve comprare una casa più grande) che è diventata binario parallelo, invisibile eppure materico quanto gli occhi gonfi, stanchi, corrugati di Branko. E del collega Maki, più apprensivo e rabbioso, tanto che arriva ad un gesto estremo, plateale, su quella stessa sempre uguale autostrada.
Accettare il ricatto di una paga migliore del misero stipendio avuto in patria. Piegare la dignità alla sopravvivenza del ventre di un’intera famiglia e insieme perderla tra uno scarico merce e l’altro. L’uomo-oggetto, preda del proprio cammino, svenduto al mercato di identità costrette al vagabondaggio, alla labilità del domani. Fasulo firma una delle più nitide regie del festival, con un racconto introspettivo, sussurrato, splendidamente interpretato, che si inserisce in una nouvelle vague della docufiction che esplora con gentilezza e primissimi piani, cancellando l’illusione del filtro sulla banalità devastante e “nostra” dell’esistere.
TITOLO E CAST
TIR
Regia di Alberto Fasulo
Con Branko Završan, Lučka Počkaj, Marijan Šestak
Sceneggiatura Enrico Vecchi, Carlo Arcero, Branko Završan, Alberto Fasulo
Suono di presa diretta Luca Bertolin, Igor Franscescutti
Fotografia Alberto Fasulo
Montaggio Johannes Hiroshi Nakajima
Sound design Daniela Bassani, Gordan Fučka, Stefano Grosso, Dubravka Premar, Riccardo Spagnol
Prodotto da Nadia Trevisan, Alberto Fasulo
Coprodotto Irena Markovic
Ita/Hr 2013
90’
di Sarah Panatta