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Festival del Film di Roma 2013: presentazione di “I Corpi Estranei”

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Festival del Film di Roma 2013: presentazione di “I Corpi Estranei”

Mirko LocatelliUn film sulla fragilità umana per dar voce ai malati invisibili

Un film sulla fragilità umana. Così, in conferenza stampa, il regista Mirko Locatelli ha definito la sua ultima opera “I corpi estranei”, dedicata ai cosiddetti malati “invisibili”, cioè i genitori e i familiari di bambini ricoverati in reparti di oncologia pediatrica. Queste le intenzioni di Locatelli e di Giuditta Tarantelli, sua moglie e co-sceneggiatrice e co-produttrice de “I corpi estranei”. Per dare spazio agli ultimi, ai più “deboli”. Una voce anche per loro, che viene donata da chi, da apparentemente destinato alla sconfitta, in quanto tetraplegico da oltre 20 anni, è diventato un vincente; è regista da dodici anni ed è stato commovente vedere molte persone costrette su una sedia a rotelle venire a condividere questi momenti toccanti di un film che sicuramente chi l’ha visto non dimenticherà. Un film che porta due “corpi estranei” inizialmente, distanti, così diversi e lontani, a riuscire a sancire un legame, a trovare un incontro.

Mirko Locatelli. «Per la sceneggiatura di questo film siamo partiti da un’immagine di molti anni fa che mi ha sottoposto mia moglie, co-sceneggiatrice e co-produttrice dello stesso, di un uomo con un bimbo in braccio in reparto di oncologia pediatrica e da lì abbiamo provato a pensare alla storia dell’uomo sul tema della fragilità. Spesso i veri malati sono gli adulti che non sono accompagnati, mentre il bimbo è in buone mani. I bambini hanno tutte le attenzioni, le persone intorno a loro, invece, sono un po’ trascurate. Sono chiamati ‘malati invisibili’ e a noi interessava mostrare questo. Abbiamo voluto puntare più sulla fragilità che sul dolore, facendo diventare la malattia un pretesto, poiché sarebbe potuto diventare patetico; ci vuole pudore quando ti relazioni con una patologia. Soprattutto se si tratta di ciò che definiamo ‘brutto male’ poiché abbiamo paura a chiamarlo tumore e cancro. Anche la scelta di ‘adottare’ due gemelli per recitare la parte del bambino, anche se poi diventano uno solo, è stata dovuta a un fattore di rispetto poiché altrimenti sarebbe stato troppo faticoso recitare. Un’altra fonte di ispirazione è stata un’intervista che ho letto in un momento in cui a Milano (in cui è ambientata la storia ndr) stavano succedendo degli episodi violenti in un certo quartiere e l gente diceva di ‘essere in guerra’, quando invece si era ‘in pace’; un 50-60enne aggiunse anche ‘saremo noi a perdere’. Allora mi sono interrogato su come fosse possibile che un uomo adulto si sentisse in guerra, minacciato da un nemico non meglio identificato. Filippo mi sembrava il ‘guerriero’ giusto con la forza, il fisico, la voce giusti. Il film dovrebbe uscire tra febbraio e marzo. Una scena su cui voglio soffermarmi è quella in cui Jaouher Brahim (che interpreta il ruolo di Jaber) ricopre di unguento magico e medicamentoso il piccolo Pietro, che si ricollega anche a quella finale. Lì non ci è interessato indagare la consequenzialità tra il rito e la guarigione del bimbo, quanto la tesi che è stato un modo per instaurare un legame col padre; Jaber, con la mano del bambino, ha voluto trovare un medium, un mezzo per entrare in contatto con Antonio, tramite appunto Pietro, per lui era una necessità poiché era in cerca di consolazione come lui. Antonio lo ricambia con il complimento sulla camicia che indossa che gli sta molto bene. Per quanto riguarda la scelta di Jaouher Brahim per la figura di Jaber, con mia moglie Giuditta non abbiamo avuto dubbi dovesse essere lui. Jaouher frequentava un laboratorio teatrale per adolescenti. Siamo andati a vedere lo spettacolo che riproponevano de “I clowns” di Fellini in cui recitava. Il modo in cui al termine trattenne le lacrime con gli occhi lucidi ci ha colpito: ci siamo guardati e ci siamo detti che Jaber avrebbe pianto così, che doveva essere lui».

Filippo Timi (nel ruolo di Antonio). «A sei anni mi portarono (ci sarei tornato anche a 30 anni) a Pisa perché zoppicavo con la scusa di fare un controllo; mi regalarono la prima scatolina di Lego e fui contentissimo. Pensavano avessi un tumore alle ossa; in realtà feci solamente un prelievo i cui risultati andarono bene, guardai mia mamma e dissi: ‘se muoio sono già vestito da angelo’ e mia mamma svenne. Il bambino è affascinato da tutto ciò che è nuovo. Io per etica credo sia impossibile recitare il dolore che si potrebbe provare in una circostanza come quella che vissi io, di una persona che ami e che sta male, soprattutto se è un bambino. Allora non ho che potuto chiudere la porta (come si vede in una scena del film ndr) di quel dolore. È il film più documentaristico  che abbia mai fatto, ma non mi sono mai preoccupato di recitare: un bell’approccio al lavoro direi (ride ndr).Per quanto riguarda la scena dell’unguento che Jaber mette a Pietro, io credo nella magia. Tuttavia una sorta di magia avviene davvero: Antonio è umbro ed ha un caratteraccio, ma grazie a quell’olio è costretto ad affrontare la cultura di Jaber e ad aprire gli occhi, con la conseguenza che si avvicina e crea un’apertura in questo pregiudizio. Forse la guarigione del piccolo è un puro caso, c’è stato anche il cambiamento di antibiotico, però la magia c’è stata. La trovo una trama coinvolgente. Quando una storia ti piace, senti che ti parla è già un regalo e non ti pesa recitare per ore ed ore, giorni e mesi. Incominci a vivere in e per quella storia. Questa mi occupava totalmente ed è un caso che hai una telecamera puntata addosso. Questo succede anche quando ti capita di fare ruoli più piccoli. Nella versione del 1898 di Konstantin Stanislavskij e Vladimir Nemirovič Dančenko de “Il Gabbiano” il primo dice ad uno dei personaggi che si lamentava per avere solamente poche battute che “non esistono piccoli ruoli, ma piccoli attori”; ed è un caso se sei il protagonista. A Mirko interessava che entrambi i personaggi fossero immigrati; lo ero anch’io: in quanto umbro fuori dall’Umbria mi sentivo spaesato. Quello che è interessante è che, quando recitavo le scene in cui facevo e/o ricevevo le telefonate, avevo la consapevolezza, visibile, che non c’era nessuno dall’altra parte della cornetta: in quelle circostanze sei davvero solo con te stesso. Non a caso la cosa più difficile per un attore è parlare al telefono».

Jaouher Brahim (nel ruolo di Jaber). «È stata un’esperienza molto formativa conoscere tutto quel mondo costituito dai malati, dalle loro famiglie e dal loro dolore. Con Mirko abbiamo fatto tutto un recupero sulla lingua originale. So meglio l’italiano che la mia lingua e purtroppo ho una pronuncia milanese che si sente, mi dicono. Così ho lavorato per toglierla e poter tornare all’arabo; abbiamo studiato per creare un italiano arabizzato».

di Barbara Conti