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Festival del Film di Roma 2013: “La cour de Babel”

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Festival del Film di Roma 2013: “La cour de Babel”

La cour de BabelUn documentario per approfondire il tema dell’integrazione nell’universo della francofonia

Si conclude tra gli applausi del pubblico la proiezione di “La cour de Babel” di Julie Bertuccelli, film di chiusura della sezione “Alice nella città”. Un film documentario che è stato premiato a diversi concorsi che mostra cosa significhi la francofonia in una classe d’inserimento in cui troviamo ragazzi africani, asiatici, del Sud America e di ogni parte del mondo, ognuno con la sua storia, che poi diventa una: quella della classe. “Essere stati in questa classe è stato come nascere (e crescere ndr)”, si dirà alla conclusione del film. Sono tutti lì per imparare il francese, ma in realtà ciò he apprenderanno è altro: è la fratellanza e l’uguaglianza tra loro e trai popolo perché “liberté, égalité et fraternité” significa essere “tutti uguali e liberi” e il trascorrere tutte quelle ore insieme li ha fatti diventare come fratelli e sorelle E, in questo viaggio nell’anno scolastico che accompagna tutta la realizzazione del filmato con tutte le loro storie, i ragazzi apprenderanno ad accogliere il diverso, senza distinzioni di religione né di colore della pelle. Tutto si incentra sul binomio somiglianza-diversità, due facce della stesa medaglia con cui si deve imparare a relazionarsi poiché al centro del vivere civile. Il titolo è esemplificativo: Babel rimanda alla torre di Babele che si dice abbia dato origine alla disgregazione delle lingue ed all’incomprensione tra i popoli; “la cour” è la corte, il cortile della scuola, cioè il luogo di aggregazione e socializzazione per eccellenza. In questo romanzo corale, vi sono gli individui, ma è soprattutto l’idea di gruppo ad emergere. Inutile dire che colpisce la semplicità della ripresa di scene di vita scolastica, apparentemente normali, ma incisive poiché reali, vere, sentite. La gioia, le lacrime, i sorrisi, il divertimento, i momenti di gioia alternati a quelli di difficoltà (poiché “vivere in Francia è dura”) riescono ad arrivare allo spettatore il cui trasporto verso questi giovani, già così maturi nonostante l’età, è evidente: la commozione si contiene a stento, ci si frena dall’applaudire durante la proiezioni presi dall’entusiasmo che trasmettono i ragazzi, vogliosi di dare il loro contributo al cambiamento della società. La vera rivoluzione, francese e non solo, sembra avvenire tra le mura di quella scuola, che sembra una come tante, ma il cui progetto di questo filmato sarà veramente d’esempio, farà strada nell’imparare ad interagire con una nuova realtà quale quella francese. Un documentario che parla della sua genesi, trattando, parallelamente, le problematiche più importanti all’interno della Francia, legate all’integrazione e ad equilibri che, se intaccati, conducono alle celebri sommosse nelle banlieues. Il binomio uguaglianza-diversità ci rimanda al fatto che siamo tutti uguali pur nella nostra diversità e, soprattutto, che il rapporto col nuovo e col diverso può solamente arricchire. Tramite i primi piani sui ragazzi il documentario offre pennellate della complessità dell’umanità che regna in Francia, in tutto l’universo della francofonia ed ovunque, poiché, all’epoca della globalizzazione il termine multiculturalità non dovrebbe essere più percepito quale un pericolo, ma come una risorsa e la parola razzismo non dovrebbe più neppure esistere. Il tono non è né melodrammatico, né patetico né  vi è nessun estremismo, solamente sentimenti veri. Così come le storie sono reali: c’è chi è dovuto fuggire poiché di origini ebraiche ed inseguito dai neonazisti; chi per sancire una storia d’amore; chi per richiedere asilo politico; chi per cercare lavoro per sfuggire ad un destino fatto di povertà. Il francese e la Francia sono visti quali una fonte di speranza, un’opportunità di costruirsi un futuro, per trovarsi un lavoro e diventare “una donna libera”, poiché ritornare in un’Africa francofona le ragazze  rischierebbero l’infibulazione o di essere date in spose a 13-14 anni. E così rivendicano quel diritto allo studio di cui, nella terra d’origine sono state private. Ma l’integrazione non è facile e spesso ci sono episodi discriminatori. E allora ecco che questi ragazzi curiosi si chiedono molti perché a cui la loro insegnante risponde, non proponendo una tesi e infondendo idee personali, ma facendo loro trovare le risposte appunto. Centrale dunque la figura di questa docente pacata, moderata, che ricerca il dialogo, sia coi ragazzi che con le famiglie. Sembra più una voce fuori campo narrante, viene inquadrata poco e pare fungere da trait-d’union tra i ragazzi e le famiglie, qualora esistono. Spesso, infatti il francese e la Francia significa rinuncia, mancanza e perdita di legami affettivi; di persone care lasciate nella terra d’origine, oppure di legami che si vanno un po’ disgregando qui in Francia a causa del lavoro: padri e madri fuori casa decine di ore; oppure figli che non vedono da decenni le loro madri. E l’insegnate sembra voler ristabilire un contatto, ricucire tali legami appunto. Vivere in Francia non è facile. Spesso ci si trova ad abitare in appartamenti con anche 9 persone, in poche stanze sovraffollate. E, quando si intravede la speranza di una soluzione migliore di una casa più grande, si può dover anche, nuovamente, sperimentare la separazione: Myriam dovrà lasciare la scuola per trasferirsi a Verdier. E allora ci scappa uno spontaneo “non è giusto”. In questo mondo molte cose non sono giuste, ma i ragazzi insieme sono disposti a lottare per aggiustarle e cambiare le ingiustizie, piuttosto che subirle passivamente. Prima forma di reazione è proprio girare essi stessi, quasi registi dietro la telecamera, come fosse autori della loro vita dotati di libero arbitrio e non di un’etica morale imposta dall’alto, questo documentario vincente. In cui sono aperti e disposti a ragionare di tutto, in primis della religione: c’è il corano, c’è la Bibbia, c’è il velo, ma, in fondo, si dice sono le chiusure (mentali e fisiche), più che le aperture, a portare divisione; si dovrebbe permetter ad un musulmano di entrare in una Chiesa cattolica e, viceversa, ad un cristiano di acceder a una sinagoga. È la conoscenza che favorisce l’apprezzamento della diversità. E di ragazzi che chiedono rispetto; più volte, infatti, pronunciano l’espressione “non ridere perché è vero”. Ognuno porterà in classe un’oggetto che li rappresenta, ma sicuramente quello comune che resterà è questo documentario. Che definirei con un aggettivo: vincente. Non solamente poiché ha ottenuto il secondo premio, nella categoria “scuola media”, al Festival Ciné-cap di Chartres e che vincerà anche al festival di Parigi; ma poiché riscopre anche la funzione pedagogica della scuola, quanto mai centrale. Non insegna unicamente cos’è la francofonia e a che cosa serve il francese, ma fornisce lezioni di vita universali.

Ed è per tale motivo che è stato scelto a chiusura del Festival Internazionale del Film di Roma e delle premiazioni per “Alice nella città”. “La scuola deve essere un punto di partenza da cui ripartire appunto. Da vedere quale uno spazio e un luogo d’accoglienza e non di esclusione”, dove il confronto con la diversità è un arricchimento. Il film-documentario uscirà in Francia il 12 marzo 2014, ma è stato importante vedere la reazione del pubblico italiano che, almeno qui al festival Internazionale del Film di Roma, è stata positiva: un tripudio di applausi. Standing ovation, in una parola. Soddisfazione per una regista di origini italiane il cui figlio è nato a Roma. E forse è questo che ha permesso uno sguardo competente, ma oggettivo, quasi esterno poiché relazionatosi con realtà nuove.

di Barbara Conti