Le protagoniste del film ci raccontano con umanità la vera Siria
“Border” di Alessio Cremonini racconta il conflitto in Siria (100.000 vittime e 2 milioni di profughi, di cui un milione bambini), tramite la trasposizione cinematografica di una storia vera. Presentato “Fuori Concorso” al Festival Internazionale di Roma, lo spettatore viene introdotto in questa realtà poco conosciuta attraverso gli occhi di due sorelle: Fatima (interpretata da Sara El Debuch) ed Aya (alias Dana Keilani), caratteri completamente diversi, ma uniti dalla fede religiosa e dal niqab. Fatima è più fiduciosa nell’altro, più espansiva, estroversa e socievole, Aya tende ad essere più diffidente ed a rimanere sulle sue, poiché quando era universitaria è stata violentata ed imprigionata solamente perché portava il velo e credevano partecipasse ad un progetto terroristico. Tutte e due, però, sono risolute a far valere il loro diritto a professare la religione raggiungendo la Turchia, la terra promessa che garantirà loro la salvezza e la libertà una volta raggiunto e superato il confine (“Border”); ma il viaggio attraverso i boschi nasconde molte insidie e molte crudeltà. Un film a basso costo, girato con attori non professionisti che però dimostrano di essere capaci, soprattutto di sentire l’intenzione di informare, sensibilizzare e di infondere solidarietà attraverso questo film. Di fronte ad una guerra che disumanizza ed abbruttisce, in cui si uccide per denaro, in una Siria dove vige la legge della sopravvivenza, per cui conta solamente il salvarsi la vita, c’è un’umanizzazione dei personaggi e dei protagonisti che contribuisce al coinvolgimento dello spettatore. Tutto, però, è fatto con estremo equilibrio, senza scene troppo raccapriccianti, né giudizi morali o esasperando i sentimenti e le sensazioni con pietismo o patetico pessimismo, o manifestando un astio ed un rancore incontrollati. Vengono mostrate entrambe le parti in causa, ma il finale resta aperto come la situazione ancora tutta da definire. C’è tutto del conflitto in Siria, eppure parlando con le protagoniste non si penserebbe a una crudeltà e una gravità tale della situazione in quei posti. Abbiamo incontrato le due protagoniste: Sara El Debuch (alias Fatima) elegante, fiera ed orgogliosa col suo velo; e Dana Keilani (alias Aya) vestita all’Occidentale in blue jeans, però ancora molto legata alla sua terra ed alla cultura siriana. Quest’ultima ci racconta di quanto sia perfettamente inserita nella realtà occidentale: laureata alla Sapienza come architetto d’interni si è anche diplomata in stilista e sta curando una linea di borse tutta sua, per una clientela mediorientale. Ama Roma e, da traduttrice simultanea quale è, ci traduce quello che significa vivere lì: “Ho lottato per avere la mia libertà, ora faccio una vita ‘normale’. Ho saputo che avrei preso parte alle riprese solamente una settimana prima che iniziassimo a girare. Non mi aspettavo di trovare tutti questi attori così bravi. Quando accettai la proposta i miei mi chiesero di non allontanarmi dall’Islam. Occorre sottolineare che queste ragazze portano il niqab per scelta, associato agli estremisti; infatti solamente l’1-2% delle donne col viso coperto dal velo in Siria lo indossano. Dunque viene sfatato il preconcetto di provare pietà per quelle fanciulle credendo sia un’imposizione e una costrizione subita. Poi per far vivere l’atmosfera che si respira lì, vorrei raccontare un aneddoto. La bimba che recita nel film è mia cugina e vive a Damasco. Era in Italia da qualche giorno quando mi disse ‘mi piace l’Italia perché qui non sento boom boom’. I miei genitori hanno una casa vicino a Pratica di Mare e da lì si sentono gli aerei. Quando partivano e sentiva quel rumore, lei si buttava a terra e il fratellino l’abbracciava cercando di calmarla e tranquillizzarla. Non capivo poiché facesse così e lei mi spiegò che ‘in Siria noi ci abbassiamo quando passa una aereo’. Ha anche la dermatite. E pensare che si tratta solamente di bambini di 8 anni (il fratellino) e 4 anni (lei). Anche lui se sente una porta sbattere si spaventa. Lì ci sono bimbi che hanno perso tutto, vivono e dormono per terra su cartoni. Io sono abbastanza ottimista e mi auguro di ritrovare la mia Siria, anche se so che è impossibile”.
Un’altra lezione ci viene da Sara El Debuch (nel ruolo di Fatima), che ha perso uno zio e due care amiche. “Io avevo 14 anni e mezzo quando decisi di mettere il niqab. I miei genitori mi dissero di essere consapevole che avrei portato qualcosa che rappresenta il mio Stato e che è una scelta a vita. Recitare col velo (ed indossarlo in un Paese europeo) è una missione che ho compiuto. Sono riuscita a far vedere che sono una donna islamica che recita, che sono libera nonostante abbia il velo. Questo è anche il messaggio che vuole trasmettere il film”. E nonostante la giovane età (Sara è classe 1995) sa, al contempo, essere legata alla tradizione, ma essere anche un’attivista che, tramite Fb, mostra ciò che accade nel suo Paese. Una giovane che sa sognare ad occhi aperti, ma coi piedi ben saldi a terra, che vuole diventare un avvocato per riuscire a far garantire i diritti umani fondamentali di cui ancora non si può beneficiare indistintamente nella sua terra. Un incontro, quello con loro e con la loro tradizione e cultura, che non ha mancato di donarci qualche lacrima di commozione, oltre al sorriso meraviglioso di quelle donne che hanno l’entusiasmo di fare qualcosa di importante per la loro patria, per se stesse e per la loro indipendenza.
di Barbara Conti