La vita da adolescente della giovane Fay verrà sconvolta da una presenza misteriosa per un film noir in rosa
È la stessa regista di “Another me”, Isabel Coixet, a spiegare il duplice obiettivo del suo ultimo film, presentato al Festival Internazionale del Film di Roma: analizzare “come (con)viviamo col passato, coi nostri fantasmi”, con tutte le ricadute che “questi segreti, che costituiscono il peso del nostro passato, il mistero che ci portiamo dentro” potremmo dire, spiega Coixet, hanno sulla nostra personalità e sulla nostra esistenza, cambiando le nostre vite per sempre. Non a caso c’è anche, e non marginalmente, il dover appunto imparare a convivere col dolore di una perdita di una persona cara, che è come se continuasse a vivere dentro di noi. Ma a volte non basta. Ed infatti la protagonista di questo che potrebbe essere una sorta di film noir in rosa (sia la sceneggiatura, che la regia, che la produzione sono curate da donne e l’attrice principale in questa storia è appunto una donna) non si accontenta. Fay, interpretata da un’eccellente Sophie Turner, vuole sapere la verità, tutta, senza paure né resistenze, su una presenza oscura che la perseguita, da cui si sente in un certo qual modo ossessionata, minacciata e soprattutto che sconvolge la sua vita. Andrà fino in fondo per sapere chi sia questa sorta di sua sosia: “la vita non è sempre facile come la vorresti è come la rendi”, dice alla madre. Il tema di una persona gemella è abusato nel cinema, ma Isabel lo riprende per farne un thriller psicologico quasi che stravolgerà ogni ordine e dimensione temporale e spaziale. Le “due” Fay, per così dire, diventeranno una persona sola, nuova. La domanda principale però resta: all’epoca dei cloni, saranno davvero due anime identiche? Ed è la filosofia della tragedia (un caso che sia tale e non piuttosto una commedia?) del Macbeth, che fa da cornice alla storia principale, in cui ella interpreta per la recita scolastica la “splendida, ma crudele ed insidiosa regina”. Così viene presentata in maniera un po’ ossimorica: una pura coincidenza o il frutto del binomio dello sdoppiamento di due ragazze apparentemente identiche? E dunque non può neppure essere fortuita la battuta recitata da Fay: “val meglio distruggere ciò che siamo per mezzo della distruzione che vivere nel mezzo di una gioia piena di dubbi”. Il rischio, però, si scoprirà, è che per fare chiarezza, conoscere la verità si venga a contatto con “un dolore che può sbloccarne un altro” e più. E convivere col dolore, coi propri spettri e con le proprie paure non è facile.
Non trascurabile che sia un’adolescente a vivere tutto ciò in quanto questo incrementa anche il pathos e l’impatto emotivo poiché si tratta della fase più delicata della vita di ciascuno di noi. “Di questa storia sentivo che qualcosa mi toccava nel profondo, poiché ero una madre di un’adolescente”, ha aggiunto in conferenza stampa la regista spagnola “adottata” da Hollywood. Come noto si tratta della trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Catherine MacPhail rivisitato, precisa la regista: “il libro è stato solamente un punto di partenza, ho introdotto degli aspetti personali e ne ho omessi altri che non si potevano tradurre sullo schermo. All’autrice del libro la trasposizione è piaciuta moltissimo”, ha affermato con soddisfazione.
Dalla produzione, poi, spiegano che questa dimensione del doppio è stata enfatizzata dal fatto di aver girato contemporaneamente a Barcellona e a Londra nel Regno Unito: un film diviso a metà, per così dire, eppure così coeso. La magia che può colpire lo spettatore è che, spiega Gregg Sulkin (nel ruolo di Andrew, il protagonista maschile), “è la storia di un’adolescente molto normale che però si trova in un mondo pieno di mistero; è un film così realistico che si va ad inserire in un contesto irreale”. Altro binomio ossimorico, come se il film viaggiasse su due livelli, due dimensioni, soprattutto temporali. Potremmo dire l’essere o non essere amletico, per citare nuovamente Shakespeare. Poiché, in fondo, si vuole solamente e principalmente (ri)trovare se stessi.
Forse possono piacere meno le evidenti e palesi citazioni cinematografiche ad Alfred Hitchcock e il suo “Psycho”; ma anche al cinema giapponese, anche se Isabel Coixet sottolinea che: “amo molto il Giappone, ho fatto lì molti film. Penso che, però, questo film sia più influenzato dalla letteratura giapponese, dove appunto vi sono i fantasmi, più che dalla filmografia e dalla cinematografia giapponese. Il film, infatti, ha una struttura tipo thriller poiché volevo indagare su come integriamo i morti nella nostra vita quotidiana, che vivono e rimangono in noi”. Ed è questo lavorare su una situazione “chiusa”, nell’appartamento ad esempio, di 3-4 personaggi che ha permesso, vuole evidenziare l’attrice principale Sophie Turner, “di formare legami più profondi e di avere rapporti più stretti. Fay, poi, è un personaggio contemporaneo”, cioè “un’adolescente assolutamente normale che per tutta la vita ha rifiutato la normalità e la sua vita, ad un certo punto, verrà sconvolta”, spiega la regista. “C’è una fortissima tensione nel film, che mi ha attratto. Non conta ciò che vediamo, infatti”, aggiunge Sulkin.
di Barbara Conti