Mai confondere il privato col lavoro o innamorarsi di colei che diventa una sorta di ‘paziente’ od ossessione. La trappola in cui cade Paolo con Elisa, mentre la lotta per una crescita professionale lo sottopone a test molto discutibili
Nell’era del digitale il confidente diventa il pc per una forma di e-psicoanalisi in cui lo psicanalista ha il volto di uno schermo. Il monitor é il tramite delle relazioni sociali alienate, alienanti e disumanizzate, poiché l’amico é un computer che non ha neppure la voce della persona con cui ci stiamo relazionando, ma a risponderci e a raccogliere tutti i nostri dubbi e malesseri, gioie e dolori, é una chat anonima, troppo essenziale perché possa soddisfare l’esigenza di palesare e condividere tutto un universo di sensazioni ed emozioni molto vasto. Rinchiuse tra due pareti, in una stanza asettica, due persone si scambiano segreti senza sapere chi vi sia dall’altra parte e senza pertanto conoscere veramente nulla l’una dell’altra; separati da un muro invalicabile come spesso ci troviamo davanti nelle relazioni sociali all’epoca digitale, ma anche dell’incomunicabilità. E la privacy e il confronto diretto dove sono finiti? Che succede poi quando ci si trova ad avere sul serio di fronte un individuo? Si resta bloccati e incapaci di comunicare, se non con la stessa inespressività del pc, parlando come una chat per monosillabi in maniera telegrafica. “Monitor” di Alessio Lauria, con Valeria Bilello e Michele Alhaique, ci invita a riflettere su questo. In più, però, si interroga e chiede al pubblico di ragionare se sia giusto e proficuo che aziende mettano a disposizione dei dipendenti dei contact center, tramite cui possano sfogare tutto il loro malessere e malumori, spiegando ciò che li soddisfa e ciò che no dell’impresa e del loro lavoro. Con tanto di relazione finale e analisi psicologica della loro personalità ed attitudine consegnata ai vertici aziendali. É giusto che ne vengano a conoscenza così? Che fine ha fatto il vecchio rapporto datore -dipendente? Etica e morale si scontrano per cercare di definire bene ciò che è legittimo e politicamente corretto e quello che non lo é. Occorre giocare sempre a carte scoperte o si può un po’ barare e ingannare l’altro a fin di bene? Appropriarsi di dati e informazioni altamente personali quanto è legale e quanto no? E poi, un datore di lavoro fino a che punto può sottoporre il dipendente a test psico-attitudinali, che lo sottopongono a prove assurde al limite dell’estremo per vedere la sua reazione e il suo atteggiamento sotto stress? E quanto si è disposti a lottare per un posto di lavoro? Lo stesso meccanismo di queste prove ‘esagerate’ era stato al centro di una pièce teatrale: “Il metodo” con Giorgio Pasotti e Antonello Fassari, al teatro Umberto. Qui é ripreso mostrando lo sconforto e lo sconcerto di Paolo (Alhaique), che finisce per innamorarsi davvero di Elisa (Bilello) che doveva solamente ascoltare e far parlare. Sebbene parli e viva come un monitor “indecifrabile”, come un po’ tutta la sceneggiatura ad enfatizzare l’assenza apparente di emotività, con dialoghi asciutti e privi di sentimenti in fondo, si rende conto che sono poche le persone che nella vita ti ascoltano veramente. Molti si approfittano di ciò che gli confidi, per questo si ha voglia di isolarsi, restare soli. In questa società allo sbando di “gioventù decrepita” ed anaffettiva verrebbe da dire, si rischia davvero di perdere tutto: la dignità e la capacità di capirsi e di parlarsi di una coppia, per cui si è vicini ma lontani (come Elisa e il marito). Tuttavia é nel momento in cui si rischia di perdere tutto per un attimo, che si capisce quanto fosse importante per noi una persona; bisogna allontanarsi per ritrovarsi. Anche se a volte è troppo tardi, però può aiutare a farci capire se si è disposti a scendere a compromessi con le nuove regole del vivere civile e del mondo del lavoro, dettate dalle nuove tecnologie, per cui bisogna lasciarsi alle spalle gli input che ci vengono dall’interno dell’azienda una volta finito l’orario di lavoro e resettare tutto come un computer da riavviare il giorno dopo partendo da zero. Se la società, le relazioni e i rapporti tra la gente, il mondo del lavoro cambiano anche a ritmo frenetico e veloce, arriva un momento in cui ne prendiamo consapevolezza e non restano che due alternative: o si cambia anche noi in prima persona e ci si adatta e adegua, inserendosi all’interno della collettività che é quella stessa aziendale; o si rimane un disadattato ‘sfigato’, come Elisa frettolosamente aveva definito e descritto Paolo. Una scelta che é anche un modo di vedere la vita e darle colore: come uno sfondo che decidiamo di mettere sul monitor in base al nostro stato d’animo e che possiamo cambiare però. Per far diventare un dialogo (costruttivo possibilmente, ma soprattutto condiviso e partecipato) quelli che sembrano solamente semplici monologi distinti, che tendono più a dissociarsi, alienarsi, assentarsi più che a restare ancorati alla realtà che li circonda per cambiarla e farla ancor di più propria. Ritrovare se stessi per ritrovare il senso di appartenenza anche all’azienda per cui si lavora. Alimentando e rendendo più forti i sogni personali e riuscendo a guardasi davvero negli occhi per conoscersi e scoprirsi per la prima volta. Fantasia ed immaginazione, con la volontà davvero di ascoltare l’altro, per capirlo e tentare di comprenderlo, senza avere paura di provare sentimenti in carne ed ossa più che in pixel di uno schermo sempre uguale agli altri, uniformante e omologante, che non può tener conto delle differenze che fanno l’unicità di ogni singolo individuo. La differenza tra il mondo del lavoro e quello che c’è fuori, per strada o nelle loro case, è la stessa che persiste tra l’interiorità e l’esteriorità dell’individuo: spesso fatta di molte maschere e apparenze di facciata per nascondersi quasi a proteggersi dal terrore di essere giudicati e criticati; ma le critiche personali, come quelle nel lavoro, sono sempre costruttive. Il confronto, pertanto, è offrire un servizio più che quello dei contact center. O forse no? Difficile stabilirlo oggi che siamo diventati così dipendenti in tutto dalle tecnologie, ma non occorre mai perdere di vista l’umano che c’è in noi; o si rischia di rimanere davvero da soli come Paolo, che riceve l’invito al matrimonio della sua ex, vede scappare via Elisa ed è troppo preoccupato da quello che vuole l’altro (da lui soprattutto), da ciò che ha bisogno, per preoccuparsi di sé, per pensare a se stesso e alla sua realizzazione, soddisfacendo per una volta le sue di esigenze e non di altri. Pensando sempre ad Elisa come a un’ossessione si scorda di sé; lei per lui diventa quasi un caso clinico, come un paziente per uno psicologo, ma un ‘monitor’ non è un medico, è come una sorta di automa e registratore di dati che trae delle somme e conclusioni, con considerazioni non scientifiche però. Così come, francamente, sembrano avere poco di testato le prove molto discutibili cui viene sottoposto inconsapevolmente, per permettergli di fare un avanzamento di carriera all’interno dell’impresa. Tutto, però, sembra essere permesso tranne innamorarsi o vivere emozioni ed esperienze di vita, vissuti ricchi di umanità. Questo per un computer sembra davvero il peggiore di virus che si possa infiltrare nel sistema del cuore umano e bloccarlo, mandarlo in tilt, togliendogli linfa vitale così come gli viene privato del poter continuare ad avere il contatto con Elisa. Monitor, sembra stare più per monotonia, più che come movimento, mobilità, sia sociale, che di carriera, intesa quale forma di cambiamento. Il film è un continuo contrasto, come differenti sono gli atteggiamenti ambigui e contraddittori delle persone. Per Paolo le sale di Ascolto dove si trovano gli altri dipendenti con cui lui parla, sono come le sale d’attesa di un ospedale; sembra avere necessità di ‘occuparsi dell’altro’, ‘curarlo’ per non preoccuparsi di sé, nonostante il suo atteggiamento sia di assoluto individualismo, scarsa propensione all’empatia, rifiuto di credere nel futuro, nel destino o altro. Il regista Alessio Lauria nel 2011 ha vinto il Premio Solinas “Experimenta” con Monitor, soggetto scritto con Manuela Pinetti, da cui è tratto il suo primo lungometraggio. Il pericolo è che questo alienarsi davanti a un macchinario come il computer porti a non credere più in nulla e al suicidio, per questo senso di insofferenza per sentirsi incompresi e non riuscire a comunicare. Non è forse un caso che nel film si dice che un dipendente abbia tentato il suicidio e questo metterebbe a rischio la promozione di Paolo, primo tra i “monitor”. Se prima parlavamo di questa disumanizzazione come di un virsu temibile per i pc, non meno senso del pericolo lo dà il pensare a quelle che potrebbero essere le conseguenze stesse sull’animo umano: depressione, apatia, pigrizia, diffidenza, forte senso di solitudine e quant’altro, fino al suicidio pertanto. Allerta dettata dalla frase che Paolo stesso dice: “ognuno di noi ha una bomba sotto il letto che può esplodergli da un momento all’altro e non lo sa”, molto allarmante, ma le rivelazioni nella vita possono essere un vero choc. Poi compensa affermando, per restare nel contrasto tra gli estremi, che non si può giudicare un libro e dire che non ci piace se lo si lascia a metà. Quindi un invito a vivere intensamente il presente, a cogliere ogni attimo e fare frutto di ogni esperienza preziosa che può portare comunque sempre un insegnamento. Questo un po’ il senso da dare alla frase di Edison ‘sotto casa’ (che tra l’altro è il titolo del cortometraggio che segna l’esordio alla regia di Lauria e vincitore di vari premi ndr) di Paolo: “il tempo è l’unico capitale che un uomo ha”. E la dimensione tempo sembra impellente e importante anche per Elisa che risponde a Paolo in questi tempi: “dipende sempre da quanto tempo hai”; o forse da quanto tempo e spazio) si dedica alle cose e ai legami, al lavoro come ai rapporti umani e sociali: se con distrazione e superficialità o se approfondendo. In fondo è sempre questione di priorità, di che rilevanza si dà alle cose e, soprattutto, a quali aspetti; sia che si cerchi un’informazione in Internet, che si svolga un compito per l’azienda, che si stili una relazione per un ‘monitor’, di tutto il materiale a disposizione si deve fare una cernita e quindi la considerazione attribuita ai vari elementi forniti non è la stessa e questo può cambiare molto la visione delle cose e i punti di vista e valutazione. Il ‘monitor’ stesso, a ben pensarci, ha un forte potere di ometter e manipolare le informazioni spesso sottovalutato e poco evidenziato forse nel film, che punta più quasi sull’appropriazione (più o meno indebita) di dati privati e personali (di Elisa che Paolo sfrutta per arrivare a lei). Di sicuro “il difficile è fingere”, dice Paolo. Sì, perché “quando le cose vanno male lo diciamo subito, quando vanno bene no. Non diamo il giusto valore alle cose, forse perché ci siamo troppo dentro” e occorre valutarle con maggiore distacco. Ed è per questo, come conclude la canzone a chiusura del film, che “le strade ci dividono, ma ci ripensi e non sai perché”.
di Barbara Conti