Daniele vicari lancia la schegge di una democrazia “rotta”, in “cocci aguzzi di bottiglia”
Tonnara espiatoria. L’Istituto superiore “Diaz-Pascoli”, Genova. Notte del 21 luglio 2011.
Corpi di una ribellione supposta in assedio mentale. Buio fondo nel crash sinaptico, di vittime e aggressori. Transitorio inappellabile bipolarismo schiacciato/schiacciante. Dentro, lo stridore delle ossa spezzate e lo smarrimento del tempo. Fuori, assetto di guerra nel non-luogo di uno scarno isolato urbano. Medio-evo braccato di una nazione balbettante. Che si scopre impreparata e sorda alle richieste democratiche e implode, trascinandosi dietro dieci anni di processi e omertà.
Poche ore di paura e delirio. Al G8 delle ipocrisie. Mentre una taskforce governativa pasticciata cerca rappresaglie e intimidazioni da “ventennio” che riequilibrino i poteri e lustrino di nuovo belletto le facce dell’Italia da dar in pasto all’allevamento mediatico. Mentre al Genoa Social Forum giovani professionisti, studenti, volontari organizzano/radunano/sfamano a fatica centinaia di migliaia di persone giunte da mezzo globo. Mentre centinaia di facinorosi distruggono simboli del progresso ed ogni cosa capiti sulla loro strada, fornendo alibi di repressione. Mentre manifestanti, cittadini, giornalisti, curiosi, pacifisti occupano rumorosi uno spazio di libera identificazione. Carlo Giuliani viene freddato da uno sparo da una camionetta dei Carabinieri assaltata da teppisti, cellula impazzita di una polizia che sembra non (ri)conoscere coordinate. Infuria il processo virtuale. Scatta la caccia preventiva, deliberatamente casuale e disinformata, al nucleo anarchico sovversivo, al covo delle “zecche comuniste”, alla tana dei Black Block.
In mezzo la “Diaz”, crocevia del delitto. All’interno dell’istituto, provvisorio ostello disarmato, un centinaio di ragazzi di disparata provenienza. Quando un micro esercito di poliziotti irrompe inizia un’infinita, angosciante sinfonia di “tonfa”. Senza ragionevole motivo 93 persone sotto una tempesta di bastonate e improperi, brutalizzate, manganellate in un flagello dantesco. Nella scuola imbuto agonizzante non c’è angolo di salvezza. Nessun confine di umanità rispettato. La maggior parte dei pestati finisce in ospedale, molti in caserma, il carcere delle torture di Bolzaneto, dove la violenza non si placa fino al trasferimento dei detenuti.
Con la coralità claustrofobica e prospettica del suo esperimento civile, Diaz. Don’t clean up this blood, Daniele Vicari, che ha dichiarato di voler raccontare il senso di “spaesamento” vissuto da tutti i partecipanti al G8, e che ha speso notevoli energie nella ricostruzione storica e nella genuinità scenografica e psicologica dei fatti, ha soprattutto voluto snidare coscienze camuffate e verità indistintamente insabbiate. In uno Stivale rattoppato dove il silenzio stampa marchia (ancora) le opere pericolose e dove il paradosso dittatoriale non sanguina (ancora), Vicari approccia disordinatamente (in)cauto e necessariamente cavilloso, pervicace e ciclico, la vibrazione del caos sociale (nostrano). Sconvolto da quella che visivamente e acusticamente ribadisce come folle, omicida, inaudita sospensione di diritti e libertà, il regista innesta la sua dimostr-azione finzionale, mocku-collage di documenti e (ri)prese dirette, la sua contro indagine ramificata, il suo appello ai riflessi tardivi di un paese avvolto da crisi economiche e deliri “fantapolitici”, nella rifrangenza labirintica di uno specchio rotto. Quello di una democrazia sistema asfittico e coatto, burocratizzato in gerarchie sregolate, delocalizzata in “celle” di detenzione corrotta/corruttibile al servizio di una “cosa” pubblica divenuta spoglia informe di uno stato cieco. La visione stratificata, tecnicamente ibrida di Vicari collassa e al contempo intreccia le singole esperienze. Una manciata di ragazzi(ni), un giornalista di Bologna, un pensionato CGIL, un comandante che chiede scusa. La bottiglia che cade e torna a cadere, molla catartica degli avvitamenti concentrici del fiero docudramma di Vicari, frantuma oltraggiosa il vuoto di un destino assurdo ma artatamente scritto, di anni di vergognosa assenza e di magnifiche lentezze. Di una giustizia annacquata. Di una democrazia posticcia e sonnolenta. Restituendo(ci) insostenibili i “colpi”. Per non pulire, via.
TITOLO
Diaz. Don’t clean up this blood
(Premio del Pubblico al 62° Festival Internazionale di Berlino)
Soggetto e Regia Daniele Vicari
CAST&INFO
Claudio Santamaria, Jennifer Ulrich, Elio Germano, Davide Iacopini, Ralph Amoussou, Fabrizio Rongione, Renato Scarpa, Mattia Sbragia, Rolando Ravello, Antonio Gerardi, Paolo Calabresi, Francesco Acquaroli, Alessandro Roja, Camilla Semino, Pietro Ragusa
Sceneggiatura Daniele Vicari, Laura Paolucci
In collaborazione con Alessandro Bandinelli, Emanuele Scaringi
Direttore della fotografia Gherardo Gossi
Scenografia Marta Mafucci
Costumi Roberta Vecchi, Francesca Vecchi
Montaggio Benni Atria
Musica Teho Teardo
Eseguita con Balanescu Quartet
Location Bucarest, Alto Adige, Genova
Prodotto da Domenico Procacci
Una produzione Fandango
Distribuito da Fandango
Durata 120’
I fatti narrati sono tratti dagli atti processuali e dalle sentenze della corte d’appello di Genova del 5/3/10 e del 19/5/10
di Sarah Panatta