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Alda Merini
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Alda Merini, in memoriam

Alda_MeriniDovremmo essere tutti pronti quando muore un poeta a conferirgli il giusto tributo. Se n’è parlato tanto quando morì Pasolini, e mi rimbombano in testa ancora le parole di Alberto Moravia che in quell’occasione disse con voce rotta che la morte di uno scrittore è un lutto per tutto un Paese, specie se lo scrittore in questione è davvero di grande levatura, e il suo pensiero ha determinato riflessione, sconcerto, ma anche ammirazione.

La stessa cosa deve accadere ad Alda Merini, deceduta a Milano, (1 novembre 2009), dopo anni di malattia per un tumore osseo. Perché? Perché di poeti veri ne nascono uno ogni cento anni. Al di là di quello che si può pensare di un poeta, in questo caso non è in gioco tanto la sua opera, che davvero fu eccellente, anche se nell’ultima fase della sua attività l’industria del libro ha, forse, riprodotto in maniera seriale e un po’ sdolcinata, poesie e pensieri dell’Alda senza dare ad essi la giusta dignità semantica; ma è in questione soprattutto la vita del poeta. Non vorrei attaccarmi a vecchi stilemi di giudizio, ma il fatto stesso che un poeta lo si possa definire tale, a mio avviso rimane ancora legato alla vita che ha vissuto. La mia non è una visione nostalgica, ma agguerrita del senso dell’esistenza. Non certo puoi dirti poeta se fai la vita di Berlusconi o di Prodi: è troppo agiata, e neanche d’Annunzio arrivò a tanto, nel senso che, se pur opulenta, la sua esistenza rimane legata ad un assunto che bisogna fare della propria vita un’opera d’arte, non certo solo nello sfarzo, ma nella capacità di imprimersi al di là di tutto. Quella di Alda Merini fu un’esistenza da vera scrittrice, da vera poetessa: amori mancati, sofferti, manicomio, vizio (come le sigarette, fumate a decine e decine in un solo giorno), e poi la sensibilità, l’aspetto più straordinario che apre le porte del cuore e della mente. Per alcuni la Merini non è riuscita ad essere grande come la Rosselli, ma è forse il peso della grandezza letteraria che misura un poeta, o è in base alla sua affezione, alla sua sana malattia nell’essere poeta che davvero il presupposto dell’opera si arricchisce di nuovi significati? Si, forse la Merini non è stata grande come la Rosselli, e chi se ne frega! Ha sofferto altrettanto, e questo ci basta per capire che il sentimento da lei nutrito e l’impegno profuso sono stati all’altezza del suo tempo e del suo taglio esistenziale. Sembrava non esserci a volte: ve lo ricordate quando parlava con Costanzo e la sua mente sembrava altrove? Era altrove, perché era la mente di un poeta, non di un burocrate, e non si può capire la poesia se non si è capaci di sviluppare empatia verso gli scrittori. Quattordici anni di manicomio sono la redenzione dal peccato per chiunque. Anche l’ergastolo salva chi ha sbagliato, perché tanto più la pena è dura, tanto più lo spirito si piega. Non esistono dei veri Papillon! Il manicomio non è il carcere, che in qualche modo dà garanzie di vita, di rispetto, anche se si è pluriomicida, perché non si può essere come chi sbaglia se si vuole correggere un torto subito; il manicomio è, invece, la fine della vita, un luogo in cui si va per non ritornare. Alda Merini ce l’ha fatta, è ritornata! È riuscita a guardare in faccia la propria esistenza, se pur irrimediabilmente compromessa. Di lei ho un ricordo personale. Una mia amica l’amava alla follia, era pazza delle poesie della Merini. Contattò la case editrice spacciandosi per una giornalista e chiese il suo numero di casa per poterle parlare, per ringraziarla di esistere. Telefonò. Provò a dirle quello che sentiva, ma Alda chiuse subito la comunicazione. Ovviamente la mia amica rimase malissimo. Io le dissi che non aveva molta simpatie per le donne, ma per gli uomini, nonostante fossero loro che le avevano causato maggiori sofferenze amorose. Chiamai davanti a lei. Rimanemmo al telefono per più di quaranta minuti. Posso dirlo, Alda Merini non è che odiasse le donne, ma di sicuro amava gli uomini. «Uomini miei», è il titolo di un suo libro di ricordi, da Manganelli a Costanzo, passando per Casiraghi e Mollica. Essere poeta significa davvero stare altrove, e il manicomio è stato in assoluto l’altrove della Merini. Adesso che lei non c’è più, tutti si spenderanno nel commemorare una grande poetessa italiana, e con ciò si comprende che di poeti ce ne sono sempre meno in questa nostra Italia: dalla morte di Luzi è incominciato un lutto supremo. In vita rimangono Pagliarani, Zanzotto, Balestrini, tutti con un sentimento dell’età che è ormai la loro opera. Come fu quella della Merini. In memoriam lasciamo qui questi versi, affinché non si dimentichi innanzitutto la vita di questa straordinaria poetessa:
«La mia disgrazia è simile a quella di un colibrì | che fugge dalle sbarre. | La mia disgrazia è un serpente aperto | la mia disgrazia è una gamba divaricata sul sogno. | Ahimè il piacere della carne | è simile a una grande preghiera | che occupa gli spazi insonni. | Credete alle preghiere dei poeti | che invadono l’universo | credete alle loro orge d’amore | credete ai loro atroci spasimi. | La lussuria è un monumento segreto | e pieno di silenzio. ||»

di Domenico Donatone