Sophie Hannah è una giovane scrittrice inglese che si è ormai affermata come una tra le più acclamate autrici di thriller di successo internazionale.
È ormai qualche anno che l’opinione pubblica culturale la acclama come “nuova giallista” nel panorama degli scrittori inglesi e mondiali.
Da dove nasce la sua propensione al thriller?
Ho iniziato sin da bambina a leggere i gialli e le crime stories, ovviamente quelle create per un pubblico adolescente, ed è una passione che mi è rimasta anche crescendo, tramutandosi anche in vero e proprio bisogno… una sorta di avidità di leggere tematiche di questo genere.
In Inghilterra, purtroppo, il giallo e le storie di crimini efferati sono visti come un genere meno pregiato rispetto alle tematiche prettamente letterarie. Ma secondo me questo genere non è inferiore a nessun altro. Non c’è alcun limite e non c’è nessun motivo che possa dequalificare le crime stories. Ad esempio io credo molto nelle potenzialità del thriller, poiché è un genere letterario che ha accolto molti grandi scrittori, e non certo per caso. Il mio approccio è semplice ed è basato su uno studio attento delle letteratura di genere… studio che è andato avanti per anni, con quelle letture alle quali facevo riferimento prima. E solo dopo questa “cultura” derivante dalla lettura ho deciso di cimentarmi nella scrittura di romanzi gialli.
Tra le pagine del suo romanzo viene spesso evidenziato un profondo disincanto del nostro tempo, dei rapporti interpersonali di coppia e anche della società ghettizzante… ce ne può parlare?
Beh in effetti non è che io nutra alcun tipo di disincanto nei nostri tempi, anzi, a dire il vero mi definirei una persona molto allegra e gioiosa. Ma la realtà è che è molto più interessante scrivere ed analizzare personaggi problematici e le loro vite disincantate o deluse da una serie di eventi negativi, oppure coppie in crisi che vivono momenti difficili… e tutto questo proprio per giungere ad un effetto drammatico che inevitabilmente è più interessante di una vita tranquilla e serena e ovviamente è anche più funzionale ad un certo tipo di narrazione. Tra l’altro raccontare una storia felice e serena è sostanzialmente più difficile poiché i personaggi non hanno quasi nulla da mettere in gioco, perché, appunto, felici.
Scoprire come famiglie normali possano nascondere aspetti cupi e oscuri, è per me molto interessante. Infatti mi è sempre piaciuto comprendere ed analizzare il perché si voglia mostrare un aspetto di facciata e nascondere la realtà oltre quell’aspetto. Per questo motivo spesso le mie storie e i miei personaggi si mostrano in un modo che non è mai quello reale, e la verità è sempre completamente diversa e la si può raggiungere solo andando oltre quegli strati di finzione che vengono interposti prima di giungere al nucleo vero della storia o del personaggio.
Il suo romanzo potrebbe essere definito un giallo sociale che attraverso i suoi personaggi svela aspetti reconditi dell’animo umano?
Sì… esattamente. Direi che è davvero una definizione eccellente per il mio lavoro e i miei libri.
Io ho sempre definito i miei libri come dei thriller emotivi e psicologici. Si tratta sicuramente di romanzi gialli, tuttavia vengono determinati proprio dalle situazioni personali e private dell’animo umano dei personaggi che descrivo. Quindi il faro è puntato sempre sull’introspezione e non tanto sugli inseguimenti, sulle sparatorie, sul traffico di armi o stupefacenti e sull’azione senza esclusione di colpi. La definizione che hai dato è perfetta.
“Non è lui” è anche un romanzo che si muove tra il dolore e la malinconia, il tutto, però, scritto in stile scorrevole. Senza alcuna pesantezza: È stato difficile realizzare questo equilibrio?
No, non direi… non è stato affatto difficile. Delle volte i lettori e spesso anche gli scrittori identificano nell’utilizzo di vocaboli ridondanti, oppure di terminologie prolisse e oscure, uno scrivere dotto e profondo… e spesso confondono la semplicità di linguaggio con la futilità del contenuto. Alcuni sono convinti che più sia difficile comprendere le parole e più la storia sia profonda e di ottimo livello.
Io non sono affatto d’accordo. Io amo trattare argomenti piuttosto impegnati, delicati e profondi però in modo accessibile, che non crei alcuna barriera. In effetti è anche vero che io mi propongo di scrivere thriller avvincenti con la speranza di far scaturire talmente tanto interesse nel lettore, che gli sia difficoltoso chiudere il libro e non concedersi ancora una pagina.
Il suo successo l’ha portata ad essere tradotta in molti paesi e perciò molte lingue diverse: per essere compresa anche da ambienti culturali differenti, utilizza accortezze particolari?
Assolutamente no… quando ho scritto il mio primo romanzo Little Face (Non è mia figlia, 2008, ed. Garzanti) io volevo solo raccontare la storia di una donna che si trovava in una situazione particolare. Questo romanzo, in seguito, è stato venduto in 24 paesi diversi e solo a quel punto mi è venuto il dubbio se le diverse culture di quei 24 paesi avrebbero compreso bene ciò di cui parlavo, o se si trattava di un prodotto troppo inglese, dalla storia al modo di pensare. Analizzando bene tra me e me mi sono data la risposta che in realtà auspicavo: il romanzo era davvero comprensibile per tutti, e di unicamente inglese aveva la sua ambientazione che è appunto l’Inghilterra.
Le mie sono delle storie universali, in particolare proprio quella di “Non è mia figlia” tratta di una donna che sospetta che la figlia sia stata scambiata in culla, ed è una storia che potrebbe succedere davvero ovunque. Le mie storie parlano di persone, rapporti interpersonali, di problemi comuni, e tutto ciò può essere tradotto senza davvero alcun problema poiché ognuno di noi ha rapporti con il prossimo che possono essere positivi o degenerare in qualcosa di poco onesto o pessimo.
La cronaca nera italiana e mondiale ha evidenziato alcuni casi, pericolosamente in crescita, nei quali il rapporto tra genitori e figli spesso si tramuta in carnefice-vittima, e sempre per apparenti futili motivi. Questo argomento è trattato anche da lei nel suo scritto… ha qualcosa da aggiungere in merito?
In effetti nel regno Unito io ho potuto notare che le statistiche e le notizie riguardo queste situazioni drammatiche sono in netto rialzo. Dalle nostre parti si tratta spesso del maschio, del padre, che compie atti sconsiderati che possono anche portare all’uccisione dei figli, per colpire la moglie, magari rea di avergli comunicato una separazione… Spesso in Inghilterra il genitore maschio uccide per vendetta, per farla pagare pesantemente alla propria compagna… soluzione che quasi sempre finisce con il suicidio del padre dopo aver compiuto l’atto drammatico e tragico oltre che criminale.
I reati in ambito familiare sono stati per me sempre motivo di interesse, anche perché in Gran Bretagna non c’è mai stata molta copertura mediatica, come ci fosse una sorta di pudore, di desiderio di celare questi tragici eventi. Ad esempio se ci sono reati in ambito politico o sociale come corruzioni di ogni tipo, i giornali e le tv danno ampio spazio, mentre orrori famigliari sono spe
sso lasciati in secondo piano o dimenticati… e io mi sono sempre chiesta il perché, senza riuscire a darmi una risposta esaustiva se non quella sopra detta… io credo che sarebbe molto meglio dare più spazio a questi crimini perché potrebbe anche essere un buon motivo di riflessione per la comunità intera.
Con questa ultima domanda l’intervista si conclude.
Ringraziamo l’autrice Sophie Hannah per la sua disponibilità e, come sempre, l’ufficio stampa della Garzanti Francesca Rodella che ha permesso che questa intervista potesse avere luogo.
di Svevo Ruggeri