La
Rete Ricerca Pubblica è nata e cresciuta per rispondere al violento attacco sferrato dall’ultima manovra finanziaria contro il sistema della Ricerca Pubblica prevedendo la soppressione di alcuni dei molti enti pubblici di ricerca, definiti improvvisamente inutili.
Ricercatori universitari e degli enti pubblici di ricerca da domani saranno uniti in un fronte comune per difendere la libertà, lo sviluppo e l’autonomia della ricerca italiana.
Le loro storie hanno origini diverse, vissuti differenti, ma un unico, inquietante, scenario futuro: la mancanza di autonomia e la “stabile” precarietà che, tradotto in altri termini, non significa solo un contratto di lavoro a tempo determinato o un co.co.pro o peggio un assegno di ricerca ma, più in generale, la consapevolezza di non poter fare progetti futuri, la frustrazione per non riuscire a far valere i proprio diritti, precari anch’essi, la sensazione di non appartenere mai, fino in fondo, all’ente per il quale si lavora, l’amara certezza di spendere il proprio ingegno per un tempo necessariamente circoscritto, passato il quale si è fuori dal mondo del lavoro, non più in grado di offrire un contratto a tempo indeterminato ma solo di “affittare” per un certo numero di anni le capacità di un ricercatore, per poi abbandonarlo al suo destino.
Il peggio è arrivato a fine maggio, quando i lavoratori di molti enti di ricerca si sono svegliati una mattina e hanno scoperto che l’ente pubblico per il quale lavorano è divenuto improvvisamente “inutile”, perché così è stato deciso, nonostante per anni si sia autofinanziato e abbia prodotto risultati importanti nel campo della salute pubblica, della prevenzione degli infortuni sul posto di lavoro, della medicina sociale e dell’analisi economica.
C’è questo e molto altro dietro le sigle degli enti pubblici di ricerca soppressi dalla manovra finanziaria: ISAE, ISPESL, ENSE, INSEAN, IAS, solo per citarne alcuni.
“La nostra protesta non è corporativa, non stiamo difendendo il nostro posto di lavoro, non vogliamo sovrapporci al lavoro dei sindacati o dei partiti – spiega
Federica De Luca, portavoce della
Rete di ricerca pubblica –
A noi non interessa avere un’etichetta politica, siamo una realtà apartitica e indipendente, con il solo obiettivo di parlare alla gente, per informarla di quanto sta succedendo. L’opinione pubblica deve sapere – continua De Luca –
che dietro la soppressione degli enti e i tagli alla ricerca c’è un problema di democrazia violata, che è d’interesse nazionale e non corporativo, se le funzioni e i compiti degli enti di ricerca vengono assegnati ai Ministeri, come nel caso dell’’Isae, si sta violando la terzietà, l’indipendenza e l’autonomia della ricerca”.Di conseguenze, la soppressione di un ente di ricerca pubblico ne ha parecchie. Anzitutto il valore stesso della ricerca: solo l’ambito pubblico garantisce il rispetto di determinate direttive e linee guida, estranee alla mera logica aziendale di profitto, affrontando nel lungo periodo investimenti in perdita che l’ambito privato non potrebbe permettersi. Tradotto in altre parole, potrebbe fermarsi la ricerca su malattie considerate rare e quindi poco “convenienti” dal punto di vista di un’impresa privata. Interi campi di ricerca rischiano quindi di essere abbandonati, nonostante i risultati a beneficio dell’intera collettività. Togliere ad un ente la sua veste giuridica, inoltre, significa impedirgli la possibilità di partecipare a progetti e finanziamenti internazionali con perdita, questa si, di futuri introiti economici. “
Per non contare le situazioni a dir poco paradossali che rischiano di crearsi – commenta De Luca –
quando gli enti soppressi vengono accorpati ad altri istituti che, in realtà, dovrebbero svolgere funzioni di controllo. Si pensi all’ISPELS: è stato accorpato all’INAIL che, per statuto, liquida il danno da infortunio sul lavoro. Proprio ciò che studia l’ISPELS. Noi pensiamo ci sia il rischio di un serio conflitto di interessi che riguarda tutto il Paese”.
Per non parlare del personale precario degli enti che, in molti casi, rischia di non veder rinnovato il contratto oppure di essere accorpato al ministero di riferimento, ma con mansioni assolutamente estranee al proprio percorso di studi. Si immagini uno CTER (collaboratore tecnico di ricerca) che si ritrovi, improvvisamente, a svolgere mansioni amministrative. Una situazione al limite del grottesco. “Siamo riusciti ad ottenere una diretta dalla trasmissione Annozero – aggiunge De Luca – e per noi è già stato un grande successo portare a conoscenza di tutti le nostre problematiche. Abbiamo lanciato un video-appello su internet che ha avuto migliaia di contatti. Abbiamo realizzato un grande evento a Roma il 17 Luglio (“Echi Cosmici”) e ci stiamo coordinando con il mondo universitario. Quello che ci proponiamo di fare adesso è un passo ulteriore e cioè far capire che l’autonomia della ricerca pubblica è uno dei principi costituzionali su cui si fonda l’impalcatura democratica del nostro Paese e non lo facciamo solo perché amiamo il nostro lavoro, ma soprattutto perché amiamo la nostra Costituzione. Senza ricerca non c’è futuro, e non ci sarà fuoriuscita dalla crisi”.
E uno stato che non ha a cuore la ricerca pubblica, preclude il diritto al benessere e alla libertà dei propri cittadini.
di Valeria Nevadini