70 è il numero degli inviati della BBC in zone di guerra che hanno pagato con la vita la loro vocazione a raccontare gli orrori del mondo
Secondo il Commitee to Protect Journalist, (CPJ) un’organizzazione no profit nata nel 1981 che sponsorizza la libertà di stampa e i diritti dei giornalisti nel mondo, i reporters morti per aver deciso di portare alla luce le notizie nelle zone di guerra ammonta a 70 nello scorso anno.
Un numero che secondo l’organizzazione è in assoluto il peggiore degli ultimi 30 anni. Come è noto la BBC, British Broadcast Corporation, la più antica delle emittenti non solo del Regno Unito ma anche mondiale, ha numerosi inviati da tutto il mondo, e non essendo sponsorizzata né dal governo né da fonti pubblicitarie, deve il suo successo economico alla vendita di news, soprattutto quelle riguardanti le zone di guerra nel mondo. Il risultato peggiore secondo il Commitee to Project Journalist era stato nel 2007, quando le morti degli inviati avevano toccato il picco di 67 morti, mentre nel 2008 gli attacchi mortali ai membri della stampa si erano fermati a quota 42.
Il 2009 è stato l’anno della catastofe, con 31 reporter morti solo nelle Filippine. Altri dati scioccanti provengono dalla Somalia dove nel 2009 sono stati brutalmente uccisi 9 giornalisti per mano del Al-Shabaab, una cellula terroristica locale contro la diffusione della stampa. Due giornalisti sono stati assassinati in Russia, e ancora sangue in Messico e Sri Lanka.
Seguendo le stime dell’associazione no profit, si nota che più della metà dei giornalisti operanti in zone di pericolo sono attualmente detenuti. La maglia nera al paese che imprigiona più giornalisti va alla Cina, seguita da Iran, Cuba ed Eritrea. Parlando alla conferenza delle Nazioni Unite di New York, Barbara Plett, famosa reporter della BBC, ha rivelato che la pressione internazionale fu in passato il modo più efficiente per combattere sia il governo repressivo e l’impunità per chi attaccava i giornalisti. Seguendo l’analisi della
CPJ si evince che proprio le nuove tecnologie di comunicazione siano l’arma usata dai governi in guerra per attuare maggiore repressione nei confronti dei giornalisti.
L’associazione ha infine rilevato che i governi di Theran, Cina e Tunisia, hanno il potere di sabotare blog e social network contro i reporter che fanno il loro mestiere raccontando al modo l’abominio delle guerre e dei regimi dittatoriali.
Il direttore esecutivo del CPJ, ha recentemente dichiarato: “
Creando nuove strategie di pensiero potremmo assicurare gli assassini alla giustizia, ridurre il numero dei giornalisti in prigione e supportare chi svolge il proprio lavoro giornalistico non in patria ma in esilio o in zone dove la repressione di stampa è soffocante”.
Ad oggi, la associazione no profit conta infatti 150 giornalisti imprigionati, 60 dei quali in Iran.
di Valeria Marchetti