Tratto dall’omonimo romanzo del regista, ha aperto la 12^ edizione della Festa del cinema di Roma, promuovendo – al contempo – questo genere nella cinematografia italiana, dove è ancora poco diffuso. Non per molto forse dopo questo film efficace, con suspense costruita in modo perfetto. Sulla banalità del male e sulla sua spettacolarizzazione gratuita. Con Jean Reno, Toni Servillo e Alessio Boni.
La ragazza nella nebbia è il film di Donato Carrisi, tratto dall’omonimo suo romanzo. Già il titolo denota il carattere principale che lo connota: il mistero. Tutto deve essere retto – precisa il regista – sulla suspense. Come nei migliori thriller. Questo non è un semplice giallo poliziesco complicato e ben intrecciato. Sebbene la sceneggiatura accurata tenga su la storia dei vari personaggi che si incrociano grazie alla scomparsa di una ragazza (Anna Lou) in un piccolo paese di montagna: Avechot. La polizia indaga, il caso riporta a quello di un serial killer di diversi anni prima.
Tuttavia questo che potremmo definire un thriller realistico ha qualcosa in più. Non per nulla si può rimandare al genere ed allo stile di film del calibro, ad esempio, di “Denial -la verità negata-” di Mick Jackson. Sebbene questo film tratti della disquisizione se l’Olocausto sia esistito o meno, argomento che apparentemente c’entra poco con il tema de La ragazza nella nebbia, abbiamo fatto tale paragone per due ragioni. Innanzitutto perché l’opera di Jackson del 2016 è stata presentata in anteprima alla Festa del cinema lo scorso anno appunto, proprio come il lungometraggio di Carrisi ha ‘aperto’ la 12esima edizione insieme a “Terapia di coppia per amanti”, anticipando l’inizio della kermesse con la loro proiezione nei giorni precedenti la prima giornata del festival. E poi perché La ragazza nella nebbia non è solo un thriller. A parte l’originalità della forma – in quanto questo tipo di film non è molto diffuso in Italia – il prodotto non si occupa solo del giallo, ma affronta anche altro: la corrispondenza quasi perfetta che c’è tra un’indagine poliziesca e un’inchiesta giornalistica. E soprattutto, la spettacolarizzazione del male e del dolore. Per una banalizzazione della vanità. Tutti fingono e tutto appare finto e costruito.
Il punto di partenza è nell’affermazione di uno dei protagonisti e il principale indiziato per l’omicidio: il professor Loris Martini (Alessio Boni), che insegnava nella scuola della ragazza uccisa. Tutti i particolari sono contro di lui, ma – si sa – un indizio non fa una prova; proprio perché – come dicevamo -: “il peccato peggiore del diavolo è la vanità“. Che cosa non si fa per apparire ed avere un momento di gloria? E poi l’essere umano è debole e resistere alle tentazioni difficile. Il fascino della seduzione e del proibito ci rende tutti vittime vulnerabili.
Ed è qui che si inserisce il nuovo connotato che assume il film dell’esperto regista (laureato in Giurisprudenza con specializzazione in Criminologia e Scienza del Comportamento).
Bandita qualsiasi forma di violenza gratuita per sua stessa ammissione e volontà, è Carrisi stesso a definire il suo prodotto “un inquietante racconto sulle inchieste spettacolari“, sull’assalto della stampa per tutto ciò che è sensazionale, la caccia allo scoop a tutti i costi senza cesure né scrupoli: con ogni mezzo ed ad ogni costo. Trovare un colpevole (o un capro espiatorio) da sbattere in prima pagina per fare notizia e vendere di più. Ed avere fame, successo e gloria di cui sopra. Puntando su quella che chiama “paura dell’oscurità che va in qualche modo esorcizzata“.
Nel cast ha voluto (a ragione) anche Toni Servillo (nei panni dell’agente Vogel, che cerca disperatamente l’assassino). L’attore rincara la definizione di Carrisi (di “un modo seducente di raccontare la realtà“) con quella di “un intreccio tra cronaca giudiziaria e mass media“. Di certo – aggiunge Servillo – “un thriller di perfezione geometrica, costruito con un’efficacia straordinaria”. “È qualcosa di più di un thriller: é piuttosto un’indagine sulla banalità del male“.
Ogni killer, anche il più attento, commette un errore che gli sarà fatale ed ha un punto debole.
Per questo sono essenziali e fondamentali colpi di scena e mistero per aumentare la suspense, vitale all’opera stessa.
Ed a tale proposito è Alessio Boni a rivelare: “il finale ti spiazza e ti ribalta tutto, mentre lui (Donato Carrisi ndr) ‘chiude’ narrativamente tutti i personaggi“. Che cos’è il film per lui? “È anche un modo per ‘risvegliare’ le nostre parti oscure; non è mai tutto o bianco o nero, ci sono infinite sfumature. Tutti si presentano in un modo che nasconde sempre qualcosa. In tutti noi c’é una percentuale di marcio, ma le convenzioni sociali ci aiutano a tenerla sedata”.
In una perversione mentale e psicologica, mascherata e celata con il perbenismo e di cui vengono offerte pennellate, l’atmosfera ‘inquietante del racconto’ di cui parlava Carrisi è ancor più enfatizzata dai paesaggi e dalla presenza anche di uno psicanalista misterioso, interpretato da Jean Reno (alias Augusto Flores). L’ambientazione è quella del Tirolo, dove sono avvenute le riprese. In merito Reno afferma: “ne conservo un ricordo particolare, sono luoghi davvero straordinari e riescono a sprigionare un’atmosfera speciale, che mi è sembrata perfettamente corrispondente alla storia del film“.
A questo punto resta un ultimo enigma da risolvere: con La ragazza nella nebbia Carrisi ha veramente aperto la strada al genere thriller nella cinematografia italiana? Pensiamo di sì e una sua diffusione non è improbabile.