La dura lotta del senza tetto George, che cerca di riconquistare la sua identità e di ritrovare sua figlia. Straziante, eccellente e commovente interpretazione di Gere
Al Festival Internazionale del Film di Roma, presentato in anteprima quello che rappresenta una delle maggiori interpretazioni di Richard Gere: “Time Out of Mind”. Intenso, struggente, commovente, emozionante, non può di certo lasciare indifferente lo spettatore anche più distratto. Con tono profondo e contrito quasi, tocca le corde più profonde dell’animo umano, sensibilizzando e sollecitando la mobilitazione sociale, ed americana in particolare, su uno dei temi più caldi negli Stati Uniti forse: l’emarginazione dei senzatetto. Con abilità Richard Gere sa far sciogliere anche i cuori più induriti, con le sue lacrime sincere e sentite, quelle di chi vi è entrato veramente a contatto, interagendo e vivendo realmente quel mondo e chi ne fa parte. Guidato dall’abilità del regista Oren Moverman, autore di “Oltre le regole”, “The Messenger” e “Rampart”. Con estremo realismo ed oggettività viene messa in scena tutta la disperazione dei senza tetto, costretti a vivere per le strade impervie di New York, al freddo e al gelo degli inverni, discriminati da tutti, allontanati da cittadini che li temono, quasi fossero cittadini pericolosi. È il senso più accorato di scoramento di chi sente di aver perso tutto, anche la dignità. Cerca di risollevarsi, ma le difficoltà sono immani, poiché devono fare i conti con una burocrazia lenta e cavillosa. Straziante il loro senso di stordimento, di chi si sente sperduto, quasi un vagabondo, un viandante senza meta. Eppure in loro c’è una lucida follia quasi, una chiarezza con cui vedono le cose e quello che vogliono che ridà loro piena dignità. Quella che credono di non avere più e che vogliono riconquistare. E con essa le proprie origini. Nel loro girovagare per le vie di New York, che conoscono a memoria, con poche cose necessarie infilate in un sacco che mettono sulle spalle, c’è quasi un percorrere quelle strade che li riportano a se stessi. Il gesto di chiedere l’elemosina non è gratuito, serve a richiedere un certificato per poter cercare un lavoro e sentirsi di nuovo vivo, utile, un uomo e non un essere inanimato quasi, il cui animo è logorato dalla rovina che lo ha travolto. Tutto in una volta George (Richard Gere), il protagonista, si è trovato senza famiglia, senza lavoro. Senza ragione di vita quasi. Ma è voluto rimanere ancorato in maniera forsennata, quasi ossessiva, ai luoghi dove ha trascorso quella vita e soprattutto alla figlia, che per lui costituisce il principale motivo quasi per andare avanti e resistere, lottare. Il suo sguardo spento e perso nel vuoto, si riaccende al suo pensiero, all’incontrarla, anche al discuterci. Ma confrontarsi con lei ed affrontarla è dura: deve sostenere i suoi occhi indagatori, che chiedono il perché di tutta quella sofferenza che è caduta su di loro, che lo interrogano sul suo fallimento, per cui è lei che, nel suo bar, deve sfamarlo e dissetarlo, occuparsi di lui, quando invece dovrebbe essere un genitore a badare ai propri figli. E questo rifiuto da parte sua è forse quello che pesa maggiormente a George, un uomo tranquillo, mansueto, quasi anestetizzato dal dolore. Non sembra patire tanto gli stenti di quella vita, quanto la lontananza e l’assenza dalla famiglia, dalla moglie e dalla figlia che, quasi in un grido liberatorio, è come se chiamasse. La gente la chiama follia, la pazzia di un uomo incapace, un peso per la società, che disturba e interrompe la quiete pubblica e l’ordine della città. Eppure, ribadisce, “io sono un uomo molto pulito”! Allora perché scartarlo, come fosse un essere nocivo? Invece la sua non è quella di un uomo matto, uscito fuori di testa dal dolore, ma è la lucidità di un uomo che chiede una speranza per il futuro. Difficile da ottenere e, ancor di più, da intravedere. Quella luce gliela può portare solamente la figlia con la sua comprensione. In fondo non è compassione che chiedono George e gli altri, pietismo, o gratuita bontà senza convinzione, ma rispetto della loro persona, della loro dignità di uomini che stanno cercando di ricostruirsi una nuova vita, dopo aver toccato il fondo. Tra l’indifferenza generale, l’unica forma di solidarietà e di complicità sembra quella tra senza tetto. Tra loro c’è comprensione, si aiutano, si sfogano, si sostengono, dividendo le stesse sofferenze dell’anima, si scambiano ricordi e si raccontano le loro storie. Storie di un cuore ferito, il loro, che si inaridisce ancor di più nei periodi di festa, i più freddi, in cui è facile cadere vittima del gelo. Lì lasciati per strada, abbandonati, dimenticati da tutti, da quel mondo che non li vuole, ma da cui cercano in ogni modo di farsi accettare. Storie senza tempo, dentro e fuori il tempo che scorre veloce, quasi impazzito dall’incessante rapidità della monotona quotidianità newyorkese dove tutti vanno di fretta, hanno da fare, non hanno tempo, né voglia, né per fermarsi a parlare o ad ascoltare, né per tendere uno sguardo di vicinanza umana od un abbraccio di conforto. Se una frazione di secondo da “sprecare” c’è, è per rivolgere loro parole scontrose, che li denigrano, li giudicano, li offendono. Li allontanano e li fanno ancor più richiudere nella loro solitudine, nel loro silenzio assordante eppure così fragoroso, in quel vuoto tetro che sa di assenza, di oblio, da cui ne nasce quasi una voce di richiamo straziante e stordente dal passato. Sogni disillusi che si rincorrono; sensi di colpa per tutto quello che si poteva e non si è fatto; delusioni che bloccano. La testa scoppia ed è come se George, e quelli come lui, si ritrovasse proiettato in un mondo un po’ psichedelico di pensieri che non riesce bene né a formulare né ad identificare. Non riuscendo a capire bene cosa debba e possa ancora fare. Quello che gli sia veramente rimasto. E resta lì sospeso in una dimensione a metà tra la dura realtà e quella del suo immaginario. Una dimensione senza tempo appunto, in cui tutto sembra essersi arrestato, mentre fuori tutto scorre a ritmi forsennati. In una scissione quasi tra mente e corpo. Non sa quale seguire, spesso non sente più nemmeno il suo copro, ma solamente la voce della sua mente. Già, ma lo stordimento è forte: che fare? Restare fermo ancorato al passato, ad autocommiserarsi? O cercare di andare avanti, ma dove? Ieri non c’è più, c’è l’oggi con le sue incertezze e difficoltà. E del domani che ne sarà? Se la dimensione spazio è abbastanza scarna, quella tempo è indecifrata ed indecifrabile, ma soprattutto incerta: è il “tempo fuori della mente” del titolo. Qui forse se ne può dare una duplice lettura: fuori della mente, cioè quello che vive lungo le impervie vie di New York, lontano dal ricordo racchiuso nella sua mente. Oppure quello di chi, fuori di mente, guarda con gli occhi della lucida follia, di chi è considerato un folle, ma sa benissimo quello che conta nella vita. Al di là dei beni posseduti, delle ricchezze, dei vestiti, del cibo, sono gli affetti, che nessuno può rubarci né toglierci mai del tutto. Quelli sono nostri per sempre ed anche gli ultimi, i più umili ed i più poveri ne hanno. Richard Gere sembra davvero quello più adatto ad interpretare il personaggio di George. Da sempre i ruoli che ha rivestito nei suoi film sono entrati in contatto con quello mondo dei bassifondi newyorkesi, dei meno fortunati, basti pensare anche a “Pretty Woman”. Quell’ambiente in cui vivono gli emarginati, che però non sono mai stati giudicati. Neppure in questo caso il regista Oren Moverman lo fa. “Time out of Mind” stenta un po’ a decollare e forse poteva essere alleggerito di qualche minuto. E se, ad un primo approccio, può risultare poco fruibile, man mano però riesce a catturare il lettore, trascinandolo in quella vera olimpiade quotidiana che è costretto, suo malgrado a volte, a vivere George: quella di tutti i senza tetto come lui.
di Barbara Conti