La donna che ha inventato la psicoanalisi
Essere nel posto giusto al momento giusto, senza saperlo. È questo il talento specifico di una tale Bertha Pappenheim che, non volendo, si trova nel punto esatto di congiunzione di due strade, al crocevia di un’epoca. Lei è all’oscuro delle conseguenze che la sua vita produrrà negli anni che seguono e ignora che il suo nome verrà dimenticato tanto a lungo. Perché per tutti lei sarà sempre, e solo, Anna O. Almeno fino al 1953, quando E. Jones, nella biografia di Freud, rivela: “Giacché fu lei a scoprire in realtà il metodo catartico, il suo nome, Bertha Pappenheim, merita di essere commemorato” (“Vita e opere di Freud. 3 Voll.”, Il Saggiatore, 1995). Ma chi è Anna O., alias Bertha Pappenheim? E perché la sua identità è rimasta segreta sino ad allora?
La donna è una ricca ebrea di Vienna, che, all’età di ventidue anni, si trova ad assistere il padre in una lenta agonia. Mentre presta le sue amorevoli cure al capezzale paterno, sviluppa, tuttavia, una serie di strani sintomi. Paralisi, vuoti di memoria e perdita progressiva dell’appetito le conferiscono un’aria decisamente sinistra. Il padre muore poco dopo. A occuparsi di Bertha viene chiamato allora un certo dottor Breuer, medico rinomato che lavora nell’Istituto di Fisiopatologia di von Brücke, insieme al giovane Sigmund Freud. Breuer sperimenta su di lei il “metodo catartico”, lasciandola libera di parlare, in un clima di fiducia reciproca. I risultati non tardano a venire. Riaffiorano ricordi, paure, traumi. E hanno la forma di favole sussurrate nella notte. Però, e qui ha origine il primo dei misteri che avvolge la vicenda, Breuer abbandonerà la donna al suo destino, proprio nel momento in cui la cura comincia a fare effetto. Cosa l’abbia indotto a un improvviso cambio di rotta è spiegato nel libro della giornalista Lucy Freeman, “La storia di Anna O.” (1973), ripubblicato, in versione integrale, nel 2013, da L’asino d’Oro Edizioni, con la prefazione di Massimo Fagioli. Il timore che quel legame speciale con la bella paziente, nato e cresciuto nella penombra di una stanza da letto, possa rappresentare una minaccia, induce Breuer a una brusca ritirata. Così, mentre la donna inscena un finto parto, il medico s’imbarca con la moglie alla volta di Venezia, in una seconda luna di miele. I due non si rivedranno mai più. Freud, negli “Studi sull’isteria” (1895), parlerà di Bertha e del trattamento a cui fu sottoposta, chiamandola Anna O. La storia della psicoanalisi ha origine proprio da qui, da un caso clinico qualunque, che a Freud fu solo riferito dal collega. Ma che bastò ad assicurargli un posto d’onore nelle cronache.
In effetti la terapia non produsse i risultati sperati. I sintomi peggiorarono e la donna finì nel sanatorio di Bellevue a Kreuzlingen, in Svizzera. A questo punto di Bertha si perdono le tracce.
La ritroviamo, una manciata di anni dopo, a Francoforte sul Meno, dove dirige una casa di accoglienza per orfani e traduce i classici della tradizione yiddish. Un futuro radioso la attende (almeno fino alla morte, sopraggiunta nel 1936, in seguito a un interrogatorio della Gestapo). La Freeman s’interroga a lungo sulla possibilità di rintracciare un qualche segno premonitore, nel passato di Bertha, della donna che sarebbe poi diventata. Uno scarto divide Anna O. da Bertha Pappenheim, ed è lì, in quella zona d’ombra tra prima e dopo, tra follia e normalità, che si gioca la partita più importante. Chi ha sanato le ferite di Anna, dopo che il dottor Breuer la lasciò al suo destino? E si possono cancellare per sempre i traumi del passato? La Freeman sospetta che la rinascita di Bertha tradisca un bluff. Che, dietro la solerte prodigalità che mostra verso gli emarginati nella seconda fase della sua vita, si nasconda il medesimo vuoto di un tempo. Come se a decretare vincitori e vinti, in questo caso, non fu la verità storica, ma una bugia ben raccontata, lunga un secolo. E che Bertha raccontò, prima di tutto, a se stessa.
di Michela Carrara